mercoledì, aprile 29, 2009

Washington Dc, puntata dieci. Diretta da una favola.

Post corto. Il letto mi sta assorbendo. poco da raccontare, la giornata di oggi è stata simile a ieri, solo che a lavor è andata molto meglio. Ma non posso mancare di descrivervi una scena stupenda che mi si è presentata davanti agli occhi. Vengo direttamente dal set di una favola.

Finito di lavorare, esco dal National Press Building e vengo investita da una calura fuori stagione, decisamente fuori stagione. Tolgo la giacca e sbottono la camicia. Metto l’i-pod nelle orecchie. Due minuti nemmeno e sono nel giardino della Casa bianca. Una famigliola gioca sull’erba con un bambino di circa un anno che corre sulle gambette incerte dietro agli scoiattoli, ci sono degli studenti sulle aiuole che fingono di studiare, sul viottolo la gente corre, va in bici, sui pattini, sullo skate, porta a spasso il cane. A un metro si decidono le sorti del mondo.

Di sottofondo l’i-pod ha scelto per me la colonna sonora del momento: Hallelujah di Jeff Buckley e ha anche modulato il volume ad un livello tale da permettermi di sentire i rumori di sottofondo dell’acqua delle grandi fontane e del cinguettio degli uccelli. Una leggera brezza soffiava per dare respiro ai passanti e per spogliare i peschi delle ultime foglie rimaste, tingendo tutto di una pioggia rosa e soave.

Ho capito che non era una favola solo perché il mio principe azzurro non era lì. Se non fosse stato per questo dettaglio avrei creduto davvero che tutto fosse un sogno. Per un attimo ho fermato il tempo. Ero senza fiato. E nella vita (come ho sentito una volta nel film “Hitch”) non importa per quanto tempo tu abbia respirato, quello che conta sono i momenti che il fiato te lo hanno tolto.

Washington Dc, puntata nove. La quiete dopo la tempesta.

Oggi per la prima volta mi sono chiesta “ma chi me lo ha fatto fare?”. Chi me lo ha fatto fare non lo so ancora, ma stasera ho avuto la prova che chiunque esso sia devo essergli grata.
Oggi all’Ansa è stata una giornata molto pesante. Ho notato che il ritmo di lavoro era praticamente a zero. Due o tre pezzi al giorno (precisazione, sono di 20 righe l’uno) potevano pure andare i primi giorni, ma ormai sono qui da una settimana e speravo di fare di più.
Non dico che come a Mantova mi dovevano far passare intere giornate in redazione (non sono così stacanovista) ma nemmeno passare le giornate a vedere che fa la gente su facebook mi sembra una grande occupazione. Diciamo che una via di mezzo tra le due cose mi sarebbe andata molto bene.

Oggi come al solito mi danno due notizie dopo la riunione, le faccio in un’oretta. Per un po’ aspetto mi diano altro, ma vedendo tutti molto indaffarati comincio a cercare da sola. Qualcosa che possa andare…ovviamente consapevole che tutte le cose più importanti spettano a loro.
Non trovo nulla: i giornali e i siti sono tutti presi dalla psicosi dell’influenza suina. Ci sono delle notizie che trovo belle ma non credo fossero d’interesse per il pubblico italiano. Alla fine gira che ti rigira scopro l’ennesima truffa immobiliare a danno di poveri malcapitati. Non è da premio pulitzer ma può andare. Chiedo se posso farla. Permesso accordato.

Il caposervizio me la corregge ben due volte e speravo di non avergliela mai chiesta…mi sembrava di stargli a far perdere tempo: già ha tanto da fare per lui senza me che propongo le cose e me le deve correggere… forse era meglio se non facevo niente.
Ma senza far niente proprio non ci so stare. Fossi potuta uscire, incontrare gli altri, godermi la città, ok. Ma se dovevo stare in redazione tanto valeva lavorare. Ci ho provato tutto il giorno ma non ci sono riuscita: non trovavo nulla che potesse andare.

A un certo punto il capo mi fa: “Monia ma tu quando finisci la vacanza?”. Io: “quale vacanza?” e lui: “quella che stai facendo qui!” e mi dice che secondo lui non rendo e che tutti gli altri stagisti erano meglio di me. Io non pretendo d’essere meglio degli altri, lo so che non sono meglio di nessuno (e lo sanno bene i miei amici al Lumsa News che io e Ilario lo ripetiamo sempre che agli esami io e lui faticheremo più di tutti, lui lo dice per insicurezza perché secondo me è uno dei più bravi, io lo dico perché lo so), però sentirmelo dire come rimprovero davanti a tutti m’ha fatto uno strano effetto. Vi giuro che io c’ho provato a tentare di capire che cosa dovevo fare, ma se questo è un tirocinio non dovrebbero spiegarmi loro qualcosa? Non dico ogni minuto dirmi “fai questo, fai quello”, ma almeno dirmi UNA SOLA VOLTA quali sono i criteri con cui selezionare le notizie da riportare (magari ho scartato cose interessanti e riportato altre insignificanti!).
Vabbè…credo si sia accorto che c’ero rimasta male (o meglio credo glielo abbia fatto notare un giornalista al quale ho avuto la triste sensazione d’aver fatto pena) e prima di mandarmi via m’ha chiamato nel suo ufficio. Ha detto che era una chiacchierata che avremmo dovuto fare il primo giorno tanto per capire cosa avevo fatto io prima di andare lì (gli ho detto dei miei precedenti stage), poi mi ha detto che sono arrivata in un momento denso di cose e che hanno avuto poco tempo per seguirmi ma che recupereranno. Suonava un po’ come una giustificazione per quello che m’aveva detto prima, non saprei. Intendiamoci, apprezzo molto che abbia fatto quella discussione: avesse sbagliato mi stava chiedendo scusa, avesse ragione si stava preoccupando della mia reazione, in ogni caso un atteggiamento positivo e da apprezzare. Fatto sta che uscendo non stavo bene: è dura realizzare d’aver dato il massimo ma che quel massimo per gli altri non è abbastanza.

Ero intenzionata a inventarmi una scusa per non andare domani quando davanti la Casa Bianca mi squilla il telefono. È Francesco. Strano. Lui non chiama mai. In questa settimana ci siamo sentiti solo nel weekend. Come tutti i supereroi arriva al momento giusto nel posto giusto. Dico solo “Pronto” e lui “che è successo?”. Dico diverse volte “niente”, ma lui è così insistente che la cosa migliore che mi viene in mente è: “siccome non riesco a parlare mi dici la tua giornata così intanto io mi tranquillizzo, e poi ti dico la mia”. Mi dice sinteticamente la sua e così non ho tempo di tranquillizzarmi a sufficienza e quando è il mio turno balbetto e sono visibilmente scossa. Non so come ha fatto, non me lo ricordo, ma a un certo punto lui stava parlando e io ero tranquilla. Volevo perfino andare a lavoro l’indomani. Proprio per dimostrargli che sarò pure la peggiore degli stagisti ma se non altro sono quella che ce la può mettere più di tutti. Sul risultato non poso garantire, ma sul’impegno sì. 20 minuti al telefono e questo era il risultato. Stavo molto meglio…

Non so quanto ha speso Francesco ma gli sarò infinitamente grata. Poi ha chiamato pure mia mamma, ma con lei ero molto più sollevata e forse sono riuscita a non trasmetterle la mia agitazione. Lei mi ha raccontato della laurea di mio cugino: oggi sono andati all’Aquila e lui s’è laureato in una tenda a causa del terremoto che ha distrutto l’Università. Io sono fortunata da questo punto di vista e non sono autorizzata a lamentarmi per il primo rimprovero che mi becco.
Siccome appena smette di piovere esce l’arcobaleno ma a terra rimane tutto bagnato, sono arrivata a Ish ancora giù di morale. Doccia e cena. A cena rispondo “yes” e “no” alle domande. È il massimo che mi si possa chiedere oggi. Oltretutto che c’è una pasta non degna di questo nome e del riso in bianco tristissimo. Per la prima volta nella vita sono stata contenta di mangiare l’insalata, davvero contenta.

Comunque, non so perché dopo cena sono uscita in giardino. Forse semplicemente per godermi un po’ d’aria fresca. È stata la cosa migliore che potessi fare oggi: ho passato tre ore a parlare con delle persone a cui, ahimè, ho scoperto di volere già bene.
Avevo fatto il proposito di non affezionarmi a nessuno, ma come al solito lo sto disattendendo. Qui da una settimana e sono triste perché va via un ragazzo giapponese di cui non ricordo il nome. Mi dispiace davvero: l’ho conosciuto l’altro ieri alla festa e abbiamo avuto modo di parlare per un po’. Sapere che parte mi ha messo tristezza non perché fossi affezionata a lui, ma perché so che ho perso l’occasione di conoscerlo meglio. Poi parlando con gli altri ognuno ha iniziato a dire quando sarebbe partito…per alcune persone mi sono sorprendentemente ritrovata a starci male. Male davvero. È lì che ho capito che mi sto irrimediabilmente affezionando.

La serata è stata magnifica perché capire di provare questi sentimenti mi ha fatto sentire a casa. La casa non è il posto dove se manca una persona ti dispiace? Beh, allora ho realizzato che Ish può essere una mia casa. Ah, e ho anche scoperto che ho degli amici: ieri per la messa non è che non mi hanno cercato o non mi hanno aspettato, semplicemente non sono andati manco loro.
Comunque, chiusa parentesi, la serata è finita con me che ho imparato una canzone giapponese in onore del ragazzo che parte e…. non so come sia potuto succedere ma a un certo punto stavo insegnando l’Italiano a Olga, Fatima e Alim (che ora che ci penso forse si scrive “Halim” con l’H)!...credo sia stata una cosa inconscia…siccome non riesco a parlare inglese insegno agli altri l’Italiano! Nel fare questa lezione ho sentito che per terra si era asciugata la pioggia, che nel cielo c’era ancora l’arcobaleno e che me ne potevo andare a letto serena per tutte le cose con cui la vita mi ha fatto confrontare oggi.

lunedì, aprile 27, 2009

Washington Dc, Puntata Otto. No, non ci sono gatti in america

“No non ci sono gatti in America, no non ci sono gatti in america, no non ci sono gatti in Americaaaaaaaaaa”…ve la ricordate? È la canzoncina di Fievel, il topolino. Quando stanno emigrando con la famiglia dalla Russia (o si trattava della Germania comunista? Non ricordo questo dettaglio del film..) verso gli Usa tutti i topi nella nave cantano la canzone. Nel film poi si scopre che i gatti ci sono anche in America, eccome se ci sono….

Ecco…dopo la serata idiallaca di ieri oggi ho scoperto di NON avere amici. Praticamente eravamo rimasti d’accordo che saremmo andati a messa tutti insieme alle 5. Faccio un secondo tardi per colpa d’una telefonata all’ultimo minuto e non li trovo più. Non mi hanno aspettato e non m’hanno nemmeno chiamato! Vabbè…devo cercare di raggiungerli. Vado da Olga (Russa) che oggi non va a messa che deve studiare, domani ha un esame. Mi faccio spiegare la strada. Lei mi dice che non sa se la chiesa dove sono gli altri è quella, ma vale la pena andare alla cattedrale: è lontanoccia, ma la strada è semplice, da Dupont Circle sempre dritto per Massachuttes Avenue.
Bene, mi incammino…è la strada delle ambasciate…uno spettacolo. Cammino cammino cammino, voi non avete idea di quanto cammino. Attraverso un ponte e cammino cammino cammino, pure il parco e cammino cammino cammino… a un certo punto arrivo all’Osservatorio della Marina Militare che ha un orologio grosso come una casa fuori…SONO LE SETTE MENO DIECI!

Considerando che m’ero incamminata alle 5 e mezza era un’ora e mezza che camminavo. Mi volto su me stessa: Washington è un puntino all’orizzonte! Dove cavolo sono finita? Devo aver sbagliato strada, meglio tornare in diertro. Prendo la cartina per appurare dove io sia e… Oh My God: sono uscita dai confini della cartina!!!

Mi incammino all’indietro a passo svelto e in un’ora sono al punto di partenza. Voglio uccidere Olga. Vado a bussarle. Non mi importa se ha l’esame: la voglio uccidere davvero!!! “Olga, ma dove m’hai mandato?” e lei: “Hai preso la strada giusta?” io “sì sì”, e lei: “è impossibile che non l’hai vista: è gigante! Hai passato la moschea?”, io: “sì!” e lei chiude: “Allora è impossibile, la strada è quella!”. Poi le viene un dubbio: “Scusa Monia, ma dove sei arrivata?” e io: “All’osservatorio della Marina Militare!”. E lei: “Ma come: la chiesa è lì, dietro l’angolo!!! A 50 metri neanche! Perché non hai proseguito???”. Qui ho rinunciato a ucciderla…o capito che non era colpa sua ma che sono scema io…me lo aveva detto che era lontanissimo: li potevo pure fare due passi in più! Sto ancora rosicando… e non so dove sono andati i miei amici a messa.
Bene, come Fievel ora lo so pure io: non è vero che non ci sono gatti in America. I gatti ci sono anche qui.

Washington Dc, puntata sette. Tutto ciò che succede nel miglio..è dominio di tutti

Ieri c‘è stata una gran festa stile americana… bandiere ovunque, inno inaugurale suonato col flauto da un giapponesino di un metro e mezzo che è l’idolo della casa, braciolata, hamburger e hot dog. Tutti gli studenti provenienti da uno degli Stati Uniti hanno illustrato la storia del proprio Stato e provveduto a mostrarne le usanze. La cosa che più mi ha colpito è stata l’esibizione della mia coinquilina Debby: lei è delle Hawaii e ha ballato l’ ula…la tipica danza…come in “Lilo & Stich”!

Poi c’è stato un gran quiezzettone sugli Usa (personalmente credo di non aver azzeccato manco una domanda!!) che in media tutti hanno sbagliato e infine dance!...ora, praticamente per tutto il tempo me ne sono stata in disparte…la novità erano il nuovo gruppetto di italiani appena arrivato, ma non è che mi piacesse molto il loro modo di fare. Innanzitutto SUBITO si sono fatti riconoscere invitando esterni della casa (tra cui un napoletano strillone che credo sia entrato già ubriaco!) che poi sono stati rispediti fuori molto prima che potessero guastarci la festa, ma poi…boh, loro fanno già gruppo a sé e per me è difficile entrarci tanto quanto entrare in un’altra qualsiasi comunità della casa. Tanto vale provare con gli stranieri…almeno imparo la lingua e conosco gente nuova…

Comunque…arriva il mio momento: Flip Cup! Cominciamo dal principio: Alim mi viene a salvare… Moasin (indiano di due metri) stava parlando con me da due ore di Sonia Ghandi e Macchiavelli…non che il discorso non fosse interessante, ma andava avanti da un’ora e io avevo terminato il mio repertorio di parole. A un certo punto arriva Alim (lui è del Libano) e mi fa: “ci serve un giocatore per la squadra di Flip Cup, giochi?”. Io: “sì, sì!”. Solo dopo ho realizzato che non sapevo di cosa si trattasse! Beh, è un gioco in cui ai due lati opposti del tavolo ci sono due squadre di 10 persone, ognuna con il proprio bicchiere di birra… i primi due (avversari) al via devono bere il più velocemente possibile, finito di bere poggiano il bicchiere al bordo del tavolo e con un colpo secco lo devono far alzare in aria e cadere capovolto. Appena riescono a metterlo nella corretta posizione può bere il secondo della squadra che fa lo stesso, poi il terzo e così via. Vince la squadra che capovolge per prima il 10 bicchiere… Dico solo una cosa…dopo tre giro ero la caposquadra…erano tutti esterrefatti dalla mia capacità di girare il bicchiere al primo tentativo anche dopo 6 o 7 manches!! Ovviamente la mia squadra ha sempre vinto (prima del mio arrivo perdevano sempre..ma credo fosse un caso!) e quindi per una sera sono stata l’idolo di altre 9 persone, il che non è male.

La serata si è conclusa quando la preside è venuta a intimarci di spegnere la musica…effettivamente se all’una il vicinato voleva dormire aveva il diritto di farlo. Ma non paghi noi ci siamo messi nell’ingresso a fare compagnia alla ragazza che era di turno in portineria. Gli italiani ovviamente sono usciti coi loro amici, e non sanno che si sono persi.

Racconto a Leo (che praticamente ho scoperto venire qui da 10 anni, quindi è un istituzione e SA TUTTO) di una leggenda che ero venuta a sapere, a quanto pareva una delle italiane ieri sera era tornata con due ragazzi conosciuti in discoteca e avendo lei la camera singola le illazioni avevano preso il volo. Lui mi spiega che a Ish è impossibile tenere un segreto. Quello che succede qui rimane qui, ma tutti lo sanno. Un po’ come ne “il miglio verde”, quello che succede nel miglio resta nel miglio. Poi mi tranquillizza dicendo che sicuramente c’è una spiegazione, magari erano solo amici suoi della Luiss venuti con lo stesso progetto ma che alloggiano da qualche altra parte.
Non fa in tempo a dirmi questa cosa che la ragazza di servizio strilla: “look! look!” indicando i monitor delle telecamere esterne. Un ladro? Qualche malintenzionato? Un’incendio? Nooo…qualcuno si sta baciando! In diretta! (e qui tornano le parole di Leo: “è impossibile qui tenere un segreto”)...parte il toto scommesse: chi sono? Io indovino il lui: è Alfonso il cileno, ma la lei chi sarà? È di spalle, troppo difficile…ok, sono nel parcheggio, qualcuno deve andare a vedere. Andiamo io e un’altra ragazza….beh, era l’unica italiana che era rimasta a casa. Ora era chiaro il perché!

Stamattina a colazione tutti a fare finta di niente. Tutti sanno ma nessuno parla. Tutti ci guardiamo e sogghignamo. La neonata coppietta si siede a distanza e si scambia sguardi e ride (pensando che nessuno sa) tutti gli altri guardano loro guardarsi e ridono (sapendo che loro non sanno).

sabato, aprile 25, 2009

Washington Dc, puntata sei. Finalmente il sole.

Finalmente il sole. Lunedì scorso pioveva, e pioveva di brutto. Tutta la settimana c’è stato un cielo plumbeo e un freddo che m’ha fatto ringraziare il consiglio di mio padre (cito testualmente: “portati un maglioncino che in valigia non ti pesa ed è sempre utile! Quando andammo in Sardegna da ragazzi con la Forestale prima tutti m’hanno preso in giro perché m’ero portato il maglioncino, poi la sera battevano le brocchette”, che tradotto vuol dire “battere i denti per il freddo”).

Non ha più diluviato come il primo giorno, ma l’umidità era talmente alta che ho rinunciato a lisciarmi i capelli: per una settimana look da bomboletta di porcellana…capelli coi boccoli. Non posso farci niente, se cade una goccia i miei capelli si mettono in piega da soli, così!
Oggi c’è stato il sole. Una magnifica giornata. Mi sono svegliata di buon umore, sul telefono un messaggio di Francesco che s’era ripreso dal malcontento di ieri ed era alle prese col nodo della cravatta per andare a una conferenza… Sapere di buon umore lui mette di buon umore anche me. L’umore è una malattia. È contagioso.

Il sole nel cielo, il sole nel cuore. Un bell’inizio.

Ho perso tempo a fare non so cosa così sono arrivata a colazione in ritardo. Ho preso il latte di fretta e sono corsa fuori mangiando il plumcake per strada. Questo è stato il momento in cui ho notato che in America fare colazione per strada è una tradizione. Sono pure organizzati: hanno dei bicchieri stile Mc Donald che però trattengono il calore e dai quali tutti devono il cappuccino per strada…con la cannuccia. Per quanto la cosa mi attiri da morire so che devo cercare di NON farla…metti che mi piace così tanto da farla diventare un’abitudine, tornando in Italia come mi guarderebbero nei bar se chiedessi una cannuccia per bere il cappuccino?

Gli unici che non bevono sono in tenuta sportiva che portano a spasso il cane, corrono o vanno in bici (gli americani ci vanno col casco, le ginocchiere, le gomitiere, il tutore per il polso e a questo punto non mi stupirei se sotto i calzini avessero pure i parastinchi). Non ho mai visto nessuno fare tanto sport all’aria aperta come gli americani. Corrono a tutte le ore del giorno e dovunque. Al parco come in mezzo ai grattacieli. Non fa differenza.

Entro al National Press Building e mi vesto (vedi capitolo uno: gli americani sono dei pazzi dell’aria condizionata) e passo una bella giornata. In redazione si respira un bel clima..c’è molto da fare, ma questo non rende le persone nervose o scontrose, anzi. Hanno tutti un buon carattere e mantengono la pazienza…secondo me si stanno americanizzando: gli americani non se la prendono per nessuna cosa al mondo. Take it easy!

Nella pausa pranzo decido d’andare a perfezionare la mia pratica al Press Club. Ieri Maria m’aveva convinto a farla…non aveva dovuto insistere molto: l’idea mi stuzzicava… avrei potuto far parte del club di giornalisti più esclusivo del mondo. Siccome c’è il sole faccio il giro di tutto il piano per andare dall’altra parte a prendere l’ascensore a vetri, così posso salire 13 piani guardando la fontana al centro della struttura allontanarsi…mi piace questa sensazione. Piccola parentesi: devo scoprire perché è piena di monetine…mica è la fontana di Trevi?! Eppure c’è qualcuno che ci butta dei soldi…

Comunque arrivo, pago 40 euro (meno d’un dollaro al giorno per la mia permanenza qui), ricevo in cambio la mia tessera di “socia” che mi apre un mondo. E anche non mi aprisse niente avrò qualcosa di cui vantarmi al mio rientro in Italia: adesso sono importante!

Scherzi a parte, sono contenta del mio investimento, speriamo si riveli fruttuoso. Tornando ho fatto amicizia con uno scoiattolo…camminavo per Lafayette Park quando il simpatico animaletto ha cominciato a correre verso di me. La sua simpatia era diventata inversamente proporzionale alla distanza che lo separava da me: più si avvicinava meno mi stava simpatico. M’è salito sulla gamba, mi sono spaventata a morte, l’ho scrollato, è caduto (era arrivato appena al ginocchio) s’è messo a correre in direzione contraria, è risalito sull’albero dal quale era sceso e da li m’ha fissato per un bel po’. Credo mi fissasse perché ridevo…non so perchè mi sono spaventata tanto e così m’ha preso a ridere da sola. Oltre a lui anche la gente mi fissava ..non sono sicura avessero visto la scena, ma sogghignavano pure loro. Magari ridevano per me, ma magari erano semplicemente contenti che dopo cinque giorni di pioggia fosse tornato il sole.

venerdì, aprile 24, 2009

America, puntata cinque. L'ala segreta del castello, i draghi e le principesse

Giornata pesante. All’Ansa eravamo in pochi e c’era molto da fare. In tutto mi sono occupata di 5 pezzi con svariati argomenti che, in generale, non credo sia tanto, ma al terzo giorno di lavoro, con la tastiera americana e con programmi appena imparati (e a dirla tutta manco troppo bene!) non è proprio una passeggiata.

Imbocco Cunnecticut Avenue. Sono quattro giorni che la faccio e ho il sentore che non sia proprio il percorso più breve per arrivare a Ish, ma ieri avevo provato a cambiare strada col risultato che mi sono persa e me ne sono accorta solo dopo aver percorso due chilometri nella direzione sbagliata. Risultato: volevo metterci 5 minuti di meno, ci ho messo quasi un’ora di più.
Al mio arrivo salgo di fretta in camera: voglio provare a sentire Francesco con Skype…in Italia è mezzanotte, forse faccio ancora in tempo. Mi aveva scritto una mail in cui avevo percepito che oggi qualcosa al lavoro era andato storto ed ero un po’ preoccupata.

Riesco a beccarlo, ma parlare è un’impresa, la linea cade costantemente. Non riusciamo a dirci nulla di più di quello che era contenuto nella mail e dopo un po’ sono costretta a lasciar perdere: se non mi muovo perdo la cena.

Scendo in sala con lo spirito di chi ha avuto una giornata non proprio delle migliori, stanca per il lavoro e preoccupata per Francesco. Arrivo che tutti i tavoli sono pieni e la cosa stranamente non mi dispiace: mangerò al tavolino vuoto da sola e poi me ne andrò a letto. Sono talmente presa dai miei pensieri che non mi accorgo neanche che sui muri della sala sono comparse delle foto e che i tavoli sono pieni di rose (non in un vaso, proprio buttate alla rinfusa) e piccoli libri. C’era anche uno schermo gigante per le proiezioni, ovviamente non ho notato manco quello.

Mi vado a sedere tanto tranquilla e arriva Leo (il ragazzo dei paesi bassi di ieri): “What are you doing here?Come with us!”. Insiste che devo spostarmi al loro tavolo, gli faccio notare che non c’è la sedia e ne prende una, persevero nel dire che sul tavolo con gli altri il mio vassoio proprio non c’entra ma a nessuno importa più di tanto quello che dico: in tre mettono i vassoi verticalmente rispetto a se stessi e si ci entra…un po’ stretti ma si ci entra.
E’ questo il momento in cui noto le rose, i libri e lo schermo…mi sento dire che oggi è Saint Jordi, “il giorno delle rose e dei fiori”. Nell’aria percepisco, per la prima volta da quando sono qui, che non sono l’unica a non capire.


Mangio la mia “Pepperoni Pizza” (la Diavola qui si chiama così) e le alette di pollo piccanti. Poi si alzano dei ragazzi e tutto si spiega: loro sono della Catalogna e ci tenevano a festeggiare QUI la loro festa nazionale. È stato questo il momento in cui ho capito che Ish non è esattamente in America, ma in una dimensione parallela in cui si festeggiano tutte le feste nazionali di tutte le nazioni del mondo come se fossero la propria, e lo stesso vale per le feste religiose. Ovviamente una cosa del genere è pensabile solo negli Usa…cedo che in qualsiasi altra parte del mondo tu te ne esca dicendo: “Ohi, oggi vogliamo festeggiare per la festa nazionale spagnola?” o “tedesca” o “sud africana” o “australiana”, tanto è lo stesso, ti prenderebbero per matto. Ho un sacco di amici che si lamentano per la perdita di “nazionalismo (usi, costumi, tradizioni) in Italia a causa degli immigrati” e forse prima un po’ la cosa preoccupava pure me, ma oggi ho capito una cosa… non è per colpa loro che perdiamo le nostre tradizioni, ma per la nostra cattiva volontà di mantenerle. Nuove tradizioni non cancellano le vecchie, al massimo possono portare qualcosa in più. Cancellano quello che c’era prima quando a nessuno gliene importa di cosa ci fosse.

Comunque, chiusa questa parentesi filosofica, torniamo a Saint Jordi. A quanto pare ha salvato la moglie, una bellissima principessa, uccidendo il drago che le sputava fiamme addosso. Non appena il drago morì il calore delle sue viscere fece fiorire tutto intorno a loro. Ecco spiegate le rose. Nel giorno di Sint Jordi gli uomini regalano una rosa alle donne veramente importati (mogli, fidanzate, mamme, nonne, sorelle, amiche vere) e le donne li ricambiano con un libro. Nel solo giorno di oggi a Barcellona sono stati venduti un milione di libri…tanto per dare un’idea.
Abbiamo visto un video sulle tradizioni legate alla festa (compresa una torre umana di non so quanti metri!) e poi ci hanno detto che le rose e i libri erano per noi.
Ho preso un libretto, non una rosa. Primo perché la rosa avrebbero dovuto regalarmela e non mi sembrava tanto di rispettare la tradizione regalandomela da sola, e secondo perché ho qualcuno a cui regalare il libro…non posso darglielo nell’immediato, ma non credo Saint Jordi si arrabbierà per due mesi esatti di ritardo nella consegna… l’importante è darlo a una persona importante che oggi, tra l’altro, era giù di morale.

Stavo parlando con Diana (francese…sto imparando i nomi!) quando vedo Fatima sbracciarsi dalla porta della mensa.. Che cavolo era successo? Ero dalla parte opposta della sala, creo il panico per passare e vedo tre ragazze nuove arrivate. Credo che Fatima sia stata solo gentile nel farmi conoscere gli ultimi arrivati così da poter fare facilmente amicizia e mi presento. Poi è la loro volta: “Ciao, sono Claudia” e io: “com’è andato il viaggio?” lei: “bene, bene”. Poi si sono presentate le altre due, ma ci sono volute altre cinque o sei battute per capire che STAVAMO PARLANDO ITALIANO! Ora capivo perché Fatima mi aveva chiamato!!! Praticamente la Luiss ha mandato qui delle ragazze per uno scambio e siccome loro sono convenzionati (diciamo “raccomandati”) a loro è consentito arrivare in più d’uno dalla stessa nazione…non che mi dispiaccia, anzi! E le ragazze sembrano pure simpatiche, quindi.. ;)

Le sorprese non sono finite. Parliamo un po’ in Inglese (sennò povera Fatima, era estromessa dalla discussione) e loro vanno a sistemarsi. Io rimango a fare compagnia a Fatima che collabora con Ish e oggi ha il turno in portineria. Arriva un’altra ragazza, una delle poche americane. Parliamo e lei rimane esterrefatta nel sapere che io non ho mai visto la lavanderia…decide di mostrarmi dov’è.

Voi non potete capire. La lavanderia non è nulla di entusiasmante: piccola, triste, buia e pure rumorosa con le macchine in funzione. Ma per arrivarci … praticamente davvero come in Harry Potter ci sono i passaggi segreti! Da una porta ad arco in legno, stile gotico, abbiamo avuto accesso ad un’ala della casa che non avevo mai visto: le scale antincendio che vi sono dietro collegano alla lavanderia (seminterrato), alla sala ricreativa (maxischermo, tavolo da ping pong, giochi vari, film… al primo piano), alla stanza per stirare e alla libreria che avevo già visto in passato (secondo piano), alla piccola palestra (quarto piano). Poi siccome la scala saliva ho chiesto che c’era sopra: “The roof”, il tetto. Volevo vedere. Ovviamente per questioni di sicurezza la porta era chiusa, ma era a vetri. Washington era una serie di puntini luminosi e sono certa che se mi fossi potuta affacciare meglio si sarebbe vista anche la luce della cameretta di Malia e Sasha.

Diciamo che il mio progetto di cenare da sola e andarmene a letto è abilmente fallito, ma ho avuto di molto meglio da fare. Qui non finisco mai di scoprire. E dopo la stanchezza mi è tornato il buonumore. L’America fa quest’effetto. Credo che funzioni anche a distanza. Quando Francesco saprà (ora presumo e spero stia dormendo!) del libro che lo aspetta per il giorno “del libro e delle rose” un sorriso scapperà anche a lui e al diavolo se ha avuto una giornata storta…andrà stupidamente sorridente a comprarmi una rosa che appassirà molto prima del mio ritorno.

mercoledì, aprile 22, 2009

America, puntata quattro. Secondo giorno di lavoro.

Non sono molto brava nello scrivere, o almeno non mi reputo tale. Fatto sta che oggi m’è successa una cosa strana. Magari mi sbaglio, ma credo mi siano toccate due notizie abbastanza importanti per essere il secondo giorno all’Ansa. Non certo di rilevanza mondiale, ma che bello seguirle!

Cominciamo dal principio. Come richiestomi stamattina sono arrivata in redazione alle 8, in tempo per sfogliare qualche giornale e arrivare alla riunione delle 8.30 leggermente preparata. Piccola precisazione: dopo anni di stage vari ormai credevo di sapere come funzionano le riunioni di redazione, e invece…c’è sempre qualcosa da imparare. La riunione a Washington non si fa solo tra i redattori ma in AUDIOCONFERENZA con New York e Roma al contempo. Una cosa da film (ci sarà un motivo se la stragrande maggioranza dei film è ambientata in America?...qui è tutto più figo che altrove). Comincia Cristiano, il caporedattore, elenca gli avvenimenti che ha in scaletta per la giornata, poi gli rispondono da New York aggiungendo altri eventi e intanto da Roma prendono nota. Ad un certo punto sento una voce familiare proporre un servizio da New York…un servizio sulle università di Harvard…la classica cosa da stagista… so chi è: Alfonsiiiinooo!!!! (per chi non conoscesse il personaggio si rimanda ai post sull’altro stage, quello alla Gazzetta di Mantova l’estate scorsa….a proposito, breve intermezzo, non so se mi leggono ancora ma mando un saluto a tutta la redazione sportiva di cui conservo un affettuoso ricordo).
Prendo la parola (come al solito sono fuoriluogo!): “Ciao Alfy!” e lui: “Oh, Ciao Mò, ben arrivata!”. Cristiano: “Monia, tu hai da proporre qualcosa?”, io: “no no, stavo solo salutando il mio amico Alfonso!”…poi ho precisato: “è che oggi preferisco studiare come funziona la faccenda della riunione domani do il mio contributo attivo!”. Chiuso collegamento, tutti a lavoro.

Non mi è toccato in sorte nulla. Penso che la giornata sarà come quella di ieri…poco lavoro. Non faccio in tempo a pensarlo che Cristiano mi fa: “Monia, sono rimasti fuori i quattro morti a Baltimora, li fai tu?”. Io tutta contenta: “Si si!”. Hanno fatto tutti una faccia strana nel vedere il mio entusiasmo… ma che ne potevano sapere loro di quanto mi intrigava la cosa? Era un giallo coi fiocchi! Unico dato certo: quattro persone rinvenute morte in una camera d’albergo. Com’erano morte? Chi erano? …tutte cose che avrei dovuto scoprire io.

Inizio le mie ricerche ma niente, la polizia non dichiara nulla…indice però una conferenza stampa all’una. Volevo continuare a cercare notizie per mio conto ma tempo dieci minuti Cristiano arriva con un invito: “La regina Rania di Giordania presenta un progetto per la scolarizzazione dei bambini. Ci vai tu?”. Io: “Quando?”. E lui: “Ora!”. Bene, dico che vado. Scopro che è solo al piano di sopra dell’edificio. Mi fanno una lettera, l’accredito, e devo portarmi dietro il passaporto.
Prendo l’ascensore, 13esimo piano del National Press Building, sede del Press Club. Uno dei posti più lussuosi dove sia mai stata…scene da “Mamma ho riperso l’aereo – mi sono smarrito a New York” con Kevin che alloggia all’Hilton. Moquette rossa a terra, tutto è in marmo dalla scrivania appena si scende dall’ascensore alle colonne…tutto. Stupendo. Mi seguo questa conferenza (una delle poche interessanti in 6 anni di conferenze che seguo) con Rania che è bellissima, meglio che in tv e bambini in rappresentanza dei vari paesi del mondo che avevano risolto benissimo il problema della differenza di lingua parlandosi a gesti. Erano fortissimi…tutti diversi, vestiti eleganti che comunicavano così. I bambini sono stupendi hanno capacità che crescendo perdiamo.
Comunque, il succo della faccenda era la presentazione d’un libro che verrà distribuito a 10 milioni di bambini e famiglie nel mondo, l’ultima pagina va rispedita indietro con le firme di tutti quelli a cui ognuno è riuscito a farlo leggere e le varie firme avrebbero costituito una petizione per chiedere ai vari governi di intraprendere azioni positive in favore della scolarizzazione. Il libro era composto da 12 favole scritte da personaggi illustri tra cui Paolo Cohelo e la regina Rania, appunto. Il progetto era ambizioso: creare un fondo monetario internazionale a favore della scolarizzazione con lo scopo di dare a tutti i bambini del mondo (sono 75 milioni quelli che oggi non possono andare a scuola!!) l’opportunità d’una educazione di qualità… tutto questo entro il 2015. Non fossi in America direi che è impossibile, ma se anche il presidente Obama (forse sulla scia dello “Yes We Can”che l’ha portato alla vittoria) ha promesso 2 miliardi di dollari per la creazione del fondo, questo progetto dev’essere più che realizzabile…serve il contributo di tutti, è ovvio, ma..Yes, We can.

Finita la conferenza torno giù e scrivo l’articolo. Mandato anche questo con poche correzioni. Mi rimetto al lavoro…devo scoprire che è successo a Baltimora. Continuo le mie ricerche e scopro un sacco di dettagli. Non è chiara la modalità della morte (la rivelerà l’autopsia domani), però si tratta di una famiglia newyorkese di probabili origini italiane (il cognome è “Parente”). Prendo le dichiarazioni della polizia e della scientifica e faccio dei dettagli il pezzo forte del mio pezzo(scusate il gioco di parole): dal ritrovamento dell’auto della famiglia alle indagini del dipartimento di medicina legale nell’albergo, dalle dichiarazioni ufficiali dei dipendenti dello Sheraton (l’hotel era quello) a quelle ufficiose degli ospiti. Consegno il mio pezzo, praticamente convinta di vincere il Pulitzer, e scopro che deve essere lungo la metà. Me lo tagliano, via tutti i dettagli per cui avevo tanto faticato. Vabbè… se non m’avessero toccato manco un pezzo i primi due giorni qui sarei stata Indro Montanelli. Ho imparato che la scrittura d’agenzia è “stringata” (tale il termine che hanno usato) e che quando ti dicono 20 righe le righe devono essere 20 anche se tu hai scoperto cose ce vanno in 50. Beh…sono qui per imparare. Oggi la prima lezione. Domani cercherò di non commettere lo stesso errore. ;)

Fine giornata. Arrivo a Ish. Cena. Oggi conosco due persone nuove di cui già non ricordo i nomi…devo trovare una soluzione per questa faccenda dei nomi: continuo a chiedere “what’s your name?” da due giorni…mi prenderanno per scema! Comunque le due persone nuove studiano giornalismo ed è stato bellissimo confrontarsi. Una ragazza Olandese e un ragazzo … ecco, di lui non mi ricordo manco il paese…bene! Comunque era europeo…Spagna! Me lo sono ricordato! Dicevo…è stato bello parlare di interessi comuni con due perfetti sconosciuti. Inizio a prenderci gusto con questa cosa… Al tavolo con noi altri sei ragazzi (i tavoli sono grossi e quadrati così che ci si può sedere in molti e tutti si possono guardare in faccia) e tutti a farci domande, come se la nostra fosse la professione più bella del mondo. Per me lo è sennò non avrei deciso di studiarla, ma per loro…boh, certe cose mi sfuggono.

Abbiamo affrontato un sacco di argomenti tutti insieme, dalla libertà di stampa alla formazione dell’opinione pubblica, al potere dei media. Una discussione davvero affascinante. Dai temi profondi, così profondi che per parlarne eravamo a momenti costretti a tornare bambini, a parlare a gesti come i bimbi che ho incontrato questa mattina.

martedì, aprile 21, 2009

America, puntata tre. Il primo giorno di lavoro

Ieri, previdentemente, ho pensato di farmi una bella camminata per Washington per vedere dove si trovasse l’Ansa. Cartina alla mano ho fatto il percorso fino al Nazional Press Buiding a piedi.

Giornata stupenda. Il sole risplendeva rendendo il cielo di Washington d’un azzurro quasi irreale, la temperatura primaverile rendeva piacevole camminare, dai giardini dei vicini spuntavano fuori persino gli scoiattoli e la città era colorata da miriadi di fiori. Washington è la città dei fiori: ci sono tulipani ovunque e non solo quelli. Arrivo alla sede dell’Ansa, tempo stimato: 45 minuti.

Non è proprio vicinissimo ma è così bello qui che farsi una camminata di 45 minuti è un piacere (senza considerare che con quello che mi danno da mangiare qui può essere un modo d’evitare di ingrassare 10 Kg in 10 settimanne!).Torno a casa, chiamo l’Ansa per sapere a che ora mi devo presentare l’indomani (cioè oggi). Mi dicono che di norma dovrò essere li alle 8, ma che essendo il primo giorno è meglio vada per le 9 che prima nessuno mi può filare. Perfetto. Ieri sera dopo la festa sono andata a dormire mettendo la sveglia alle 7, sarei partita da qui alle 8 e sarei arrivata pure un po’ in anticipo (o meglio, diciamo che quei 25 minuti di margine me li sono presi nell’eventualità in cui avessi sbagliato strada…).

Stamattina la sveglia suona alle sette… mi sembra strano siano già le sette: la camera è stranamente buia…dalla finestra filtra poca luce. Non potendo aprire la finestra (le mie coinquiline dormivano tutte) decido che se c’è poca luce è perché è effettivamente presto. Mi vesto con l’abbigliamento previdentemente preparato la sera prima vado in bagno e… TRAGEDIA: qui la finestra era già aperta e non potevo dedurre niente… semplicemente DILUVIAVA.

“Non c’è male come primo giorno” ho pensato…ormai era tardi per cambiarmi. Ho preso l’ombrello, sono scesa a fare colazione e sono partita verso l’ansa. Ovviamente non potevo prendere i mezzi: ieri era una giornata così favolosa che non avevo preso nemmeno in lontanissima considerazione l’idea di calcolare percorsi alternativi. E poi l’unica cosa fattibile sarebbe stata la metro, ma comunque c’erano 10 minuti di cammino per arrivare alla fermata e non sapendo dove mi avrebbe lasciato e come da li avrei potuto raggiungere l’Ansa, ho furbescamente deciso che tanto valeva andare a piedi.

L’ombrellino che avevo comprato dai cinesi (in Italia) per i primi 5 minuti è stato utile, poi ha iniziato a pioverci dentro. Passando davanti la casa Bianca mi sono detta (non ridete, adesso mi rendo conto che è una stupidaggine ma lì per lì mi è sembrata una cosa serissima) che quello era solo l’inizio del mio “american dream”, tutti gli american dreams iniziano così… nel peggiore dei modi.

Arrivo al National Press Building. All’entrata una vistosa portiere di colore mi accoglie col sorriso. Già mi sentivo meglio non piove più (non perché avesse smesso, ma perché ero al chiuso) e la gente mi sorrideva. Mi avvicino chiedendo dell’Ansa. Panico… ci vuole lo spelling: loro lo pronunciano diversamente e non mi capiva. Il mio quarto d’ora d’anticipo tra la pioggia e lo spelling era andato a farsi benedire. Comunque, capito cosa cercavo, mi fa iscrivere in un registro e sentenzia: “ twelve – eightyfive”, 12-85… che vuol dire?...proseguo: “Excuse me, It’s my first day of work, may you help me? Where Do I have to go?”. Risposta: “Twelve – eightyfive”.

Bene…mi avvio verso gli ascensori…qualcosa mi verrà in mente. Nei meandri del mio cervello pizzico una nozione che non so chi e quando mi aveva detto (ah, che cosa non si verifica nei momenti del bisogno!): “L’Ansa è al dodicesimo piano del National Press Building”… dodicesimo, dodici… ok, dodici sarà il piano, ottantacinque la stanza!

Salgo in ascensore sentendomi un genio…e sentendomi anche bagnata: passata l’emozione ho realizzato che l’ombrello cinese m’aveva coperto dalla vita in su… dei miracolosi stivaletti a caviglia avevano salvato i miei piedi, ma avevo le gambe completamente bagnate. Siccome però bisogna sempre prendere il meglio dalle cose per un attimo sono stata quasi contenta: il nero dei miei pantaloni bagnati era molto più bello degli stessi asciutti…avrei fatto una bella figura.

Si aprono le porte dell’ascensore e (ovviamente!) imbocco il corridoio sbagliato. Corretto l’errore arrivo alla porta 85. Non mi sentivo più un genio…metti caso mi fossi sbagliata nel mio ragionamento e lì ci fosse l’agenzia indiana? Che gli dicevo a un indiano??

…vabbè, ormai ero lì, tanto valeva provare. Manco potevo chiamare che il mio telefonino in America non funziona. Busso. Mi aprono. Non sono indiani.

Entro. Fantastico: parlano italiano! Ho azzeccato. Iniziano le presentazioni. Non solo. Ricevo la domanda che m’ero rassegnata a sentire tra due mesi: “Vuoi un caffè?”. Effetto strano…non ci credevo, infatti ho risposto: “Dipende…avete il caffè vero?”. Risposta: “Guarda!”. Mi aprono la porta d’uno stanzino…una specie di cucinina col bidone dell’acqua, qualche pensile, un lavandino e…troneggiante accanto al fornetto, la macchina Lavazza del caffè espresso. Non sono riuscita a trattenere un “Quanto vi voglio bene!”. Solitamente non sono così espansiva, ma ero commossa! Si sono messi tutti a ridere. Ho preso il mio caffè, mi hanno dato i giornali.

Non potevo far nulla, dovevamo aspettare la signora Maria che mi procurasse una password per usare il pc e mi spiegasse come funzionano i programmi. All’arrivo di Maria cambio di registro: hanno iniziato tutti a parlare inglese. Lei l’Italiano non lo sa (credo lo capisca ma non sappia parlarlo) e ho dedotto che per cortesia tutti parlavano inglese, non solo con lei ma anche tra di loro.

Procuratami la passwor Maria mi spiega come usare i vari programmi, poi mi regala penne, quaderni e… UN TELEFONO! Cioè…non è che proprio me lo regala, devo restituirlo a fine stage che è dell’Ansa, ma dopo due giorni di comunicazioni nulle con l’Italia avere un telefono era una cosa talmente bella che non osavo manco desiderarla!! Il mio piccolo american dream si stava realizzando… caffè, giornali, telefono, penne e quaderni in omaggio… uno spettacolo!

Ma non è finita: per pranzo è arrivata la pizza! È stato in quel momento che ho capito d’essermi trovato un angolino d’Italia a Washington. Non so perché, ma una volta trovata la mia Little Italy Washington m’è piaciuta ancora di più.

Di nuovo non mi sono potuta trattenere: mentre mangiavamo ho esternato tutta la mia gioia dicendo: “è un sogno, sono qui da poche ore ho avuto pizza, caffè e un telefono per avere contatti col mondo…”. Mi sono sentita rispondere: “Guarda che adesso si lavora anche!”. Tutti a ridere.

Comunque, m’hanno dato da fare 20 righe sul decennale della strage alla Colombine…non proprio una cosa allegrissima, però…è andata bene. L’hanno trasmessa solo con qualche piccola correzione. Oggi c’era poco da fare e così ho anche potuto passare un po’ di tempo su facebook…giornata favolosa. Dimenticavo: m’hanno anche dato le chiavi della redazione!

Stanca morta alle sei sono tornata a casa, doccia veloce e poi di corsa a cena: alle 7 chiudono la sala. A differenza degli altri giorni in cui sono stata qui, oggi la sala era piena, pienissima. Panico: vicino a chi mi siedo? I pochi posti vuoti erano in tavoli dove non conoscevo nessuno… Tergiverso nel riempire il mio vassoio e studio la situazione… fortunatamente una ragazza vicino alla mia compagna di stanza si alza e io mi siedo a quel tavolo: almeno conosco lei!

Scambiamo tre parole. Se c’è una cosa che ho capito in questi giorni è che lei è poco socievole. Ho provato a farla parlare ma niente…mi rispondeva solo “Yes” e “No” e così ho lasciato perdere. Già è difficile intavolare una discussione in Inglese, figuriamoci se l’altro ti risponde a monosillabi…inglesi pure quelli!

Rassegnata a mangiare in silenzio vedo un ragazzo al lato opposto del tavolo che mi saluta…panico: lo conosco o non lo conosco? Uff… troppa gente nuova in questi giorni…
Dico solo “Hallo!” e lui: “I saw you talking yesterday at the dinner party! Are you new?”. Ok, almeno una cosa era sicura, non lo conoscevo. Mi presento e anche lui si presenta, si chiama Leo (che si legge Lio) e viene dai Paesi Bassi. C’avrei scommesso che era europeo: sto imparando a riconoscere le persone dagli atteggiamenti…non male in due giorni.

Ci mettiamo a parlare io, lui, due ragazze orientali e la cinesina che ieri mi ha accompagnato a fare la spesa. (Altra cosa che ho imparato in due giorni: so distinguere i cinesi…). Ci raccontiamo le nostre giornate, sono tutti interessati alla mia (“It’s your first day!”) e poi mi raccontano di loro. Tutti studiano, tranne Leo che non ho ben capito cosa venuto a fare qui…fa avanti indietro con i Paesi bassi finchè non trova un lavoro che gli permetta di trasferirsi qui, ma detta così non m’è sembrata una grande occupazione.

Tutto il resto della cena abbiamo parlato dell’Italia. Leo ha un fratello che lavora ad Arciano e continuava a farmi domande e tutti erano così interessati…è stato bello. Fingevano di non sentire i miei errori di pronuncia pur di sentirmi raccotare di “Rome, Venice, Naples and Verona”.

Finita la cena abbiamo sistemato i vassoi, mentre salivo le scale in pietra e legno ho realizzato che quella che m’era successa era una cosa stranissima: sedersi al tavolo a parlare con degli sconosciuti (ribadisco, so solo due nomi!) della propria giornata di lavoro e ascoltare sinceramente interessati delle loro, tra l’altro ignorando i loro nomi, è una cosa da folli. Eppure è successa ed è stato bellissimo. Certe cose non stanno né in cielo né in terra…Solo in America.

lunedì, aprile 20, 2009

Washington Dc, seconda puntata: il party americano




Seconda questione da affrontare: il party. Allegato alla mia lettera di benvenuto (una lettera che spiega lo scopo di Ish, la casa internazionale dello studente di Washington, e che contiene tutte le informazioni utili da come si usa il telefono a quali sono gli orari di pranzo e cena) c’era un invito a un party: lo spring farewell dinner.

Da mezz’ora a Washington e avevo già un invito a un party per la sera successiva. Un bel problema da risolvere: anche ammesso che mi fossi ripresa dal jet leg, che si fa a un party del genere? e con chi ci vado? Non conosco nessuno! Non solo…era un’americanata del tipo “festa del diploma” che solo in America si fanno. Sull’invito c’era scritto che l’abbigliamento doveva essere “formal”, uniche eccezioni ammesse gli abiti tradizionali.

Stasera il dramma: alle 6 dovevo essere in giardino per l’aperitivo. Delle tre mie compagne di stanza una era malata e mi ha detto che se fosse venuta sarebbe venuta tardi direttamente per la cena, delle altre due nessuna traccia. Ieri avevano sottoscritto con me la presenza alla festa, quindi…le ho aspettate fino all’ultimo. Mi vestivo e pensavo “fa che arrivino, fa che arrivino”… non volevo andare da sola in mezzo a un mondo di 300 sconosciuti tutti acchittati a festa! Eppure l’ho fatto. Di loro non c’era traccia e così ho deciso di scendere in giardino.

C’era un tavolo con tartine e champagne e non sapendo a chi rivolgere parola ho pensato che andare al tavolo poteva essere una buona idea. Prendo una tartina dal gusto non identificato e un bicchiere di champagne. Dopo 5 minuti il primo amico: un indiano dal nome impronunciabile che quando ha capito che ero italiana si è volatilizzato (se qualcuno sa spiegarmi perché mi fa un favore). Bene, ero di nuovo sola come un gambo di sedano col mio bicchiere di champagne in mano in mezzo a sconosciuti che saltellavano tutti contenti dall’uno all’altro per salutarsi rumorosamente.

Doveva essere proprio evidente il mio imbarazzo perchè a un certo punto si è avvicinata la preside, una donna che non saprei descrivere… diciamo che sembra la versione femminile di Silente, il preside di Hogwarts, sia fisicamente che caratterialemente…ma come poteva essere altrimenti? Se la scuola sembra essere quella di Harry Potter anche la preside doveva avere qualcosa di simile. Comunque si avvicina e mi dice di non preoccuparmi che è normale il secondo giorno non conoscere nessuno ma che tutti presto mi diventeranno familiari e che avevo fatto bene ad andare alla festa perché era appunto una buona occasione di conoscere le persone. Strano ma non mi sono sembrate parole retoriche. Un secondo dopo eravamo tutti in posa per la foto di rito… io e tanti sconosciuti intorno e me... una sensazione stranissima.

Mi avvicino a una ragazza cinese che ieri mi aveva spiegato dove comprare l’acqua, la saluto. Dopo un minuto capisco che non posso appiccicarmigli tutta la serata com’era mia intenzione (solitamente ‘ste cose non le faccio, ma la situazione era disperata!) perché c’è uno che le fa il filo. In compenso però con lei c’erano due ragazze africane che mi prendono subito in simpatia a causa di una gaffe: una è Sud Africana e l’altra del Ghini… io capisco “Gana” e inizia una comunicazione surreale che però mi salva la vita: saliamo insieme fino alla sala del ricevimento (altro che quella di Harry Potter…voi non avete idea di cosa sono tavole imbandite per 300 persone in una struttura di legno in vecchio stile europeo con lamapadari da ballo delle debuttanti e argenteria varia… appena si è aperta la porta, essendo io tra i primi ad entrare mi si è aperto davanti agli occhi uno spettacolo da favola), e così finiamo sedute vicino. Bene, ho qualcuno con cui parlare.

Stupendo, arrivano varie portate e tutti mi chiedono che faccio qui. Sono davvero interessati. Fatico molto a parlare in inglese ma ci riesco. Gli racconto del mio stage, parliamo del giornalismo e, inevitabilmente si finisce alla storia dei rifiuti a Napoli perché, a quanto pare qui c’era una ragazza di Napoli qualche mese fa… gli ho spiegato della mafia e del lavoro che lo Stato sta facendo per combatterla. Una bella discussione. Nabuela ( o qualcosa del genere che proprio non ricordo) mi ha raccontato della sua vita: è in America per studiare legge, è qui da diverso tempo, non ho capito bene quanto e da sei anni non vede i genitori che vengono a trovarla il mese prossimo (era così felice nel dirlo che non potevo non riportarlo!). L’altra (della quale il nome proprio non me lo ricordo) studia per diventare diplomatica…sa tre lingue e mi ha chiesto di insegnargli qualcosa di italiano…dopo due minuti sapeva tutti i saluti, sapeva dire “voglio imparare l’Italiano”, “voglio andare in Italia” e “gettare gettone nella Fontana di Trevi”. Faceva morir dal ridere… non so se era brava l’alunna o l’insegnante (credo più la prima) ma ha imparato davvero alla svelta.

Le portate della cena continuavano ad arrivare finchè la preside non ha richiesto il silenzio per fare lei un discorso. Un discorso bellissimo: un saluto a tutti quelli che stanno partendo con la fine del semestre universitario, ragazzi che sono stati qui per sei mesi, un anno o più. Diceva che a casa li avrebbero trovati cresciuti al loro rientro, e che l’esperienza qui li avrebbe segnati per tutta la vita, che il fatto di esserci già ci denota come persone migliori di molte altre. Un discorso in tutto e per tutto simili a quelli di Silente. Comunque ci tengo a precisare che io non mi sento migliore di nessuno al momento, ma spero tra due mesi d’essere migliore di me stessa adesso. Finito il discorso Jonatan (una ragazzo che lavora a Ish ma non ho ben capito cosa faccia) ha fatto partire un filmato: c’erano tutte le foto dei ragazzi che si erano succeduti durante l’anno… c’era il natale, la neve, la gita al mare, la passeggiata alla casa bianca e varie feste. Ogni tanto si sollevano delle risate. Alcune foto erano oggettivamente buffe e ridevo anch’io altre io non potevo capirle…chissà perché ridevano, c’era sicuramente legato qualche ricordo che io ignoravo, che non potevo sapere… per un attimo li ho invidiati: volevo ridere anch’io di quei ricordi. Voglio fare mio il discorso della preside…voglio un giorno ridere anch’io delle foto scattate stasera e non perché facciano ridere ma perché ho un ricordo legato ad esse, un ricordo che solo io posso cogliere sullo sfondo.

Un ricordo di Jonathan che gira tra i tavoli col microfono per portarlo alle persone che la settimana prossima vanno via e permettergli di salutare gli altri. Il ricordo di lui che chiede: “C’è qualcuno appena arrivato?”, il ricordo di me che faccio la vaga e dei ragazzi al mio tavolo che strillavano indicandomi. Il ricordo del discorso meno sensato del mondo in cui ho detto solo quello che l’emozione mi dettava in quel momento: che volevo fare mio il discorso della preside e che speravo Ish mi desse un’opportunità di crescita personale. Ho salutato tutti precisando che molti di loro li avevo conosciuti in questi giorni e che potevo riconoscere i loro visi ma che dovevano portare pazienza perché non ricordo neanche un nome. Si sono messi tutti a ridere. Speravo che qualcuno mi interrompesse perché visibilmente emozionata non sapevo più cosa dire. È intervenuto Jonathan facendomi notare che non avevo detto il mio nome e nemmeno da dove venivo. Alla parola “Italy” s’è scatenato il putiferio: alla faccia di tutti gli italiani che si stanno sempre a lamentare del nostro paese qui ci ammirano e io sono fiera d’essere italiana…lo sono sempre stata, ma oggi di più… se non altro per l’applauso che m’ha procurato il solo pronunciare la parola “Italy”. Finito il discorso è arrivata la cheese-cake…una cosa favolosa: peccato non averla in europa.

Finita la cena c’era la serata danzante ma non sono rimasta: non solo mi devo ancora riprendere dal fuso orario ma domani ho il mio primo giorno di lavoro all’Ansa e mi devo alzare presto. Dico questa cosa per salutare e succede una cosa strana: non mi lasciano andare finchè non ho fatto le foto con le persone con cui ero al tavolo. L’America è strana: un’ora di conversazione e tutti ci tengono ad avermi nei loro ricordi ben stampata su una foto. Domani devo cercare di recuperarle perché, come un’idiota, non mi sono portata la mia macchinetta!

Ho passato una serata da favola. Credevo certe cose succedessero solo nei film, invece… invece ognuno è regista della propria vita e aver deciso di vivere quest’esperienza sembra promettere bene per un’eccellente puntata della Monia’s life.

domenica, aprile 19, 2009

Washington Dc, prima puntata. Il clima.

Già dall’aereo molte cose avrei dovuto intuirle… prima fra tutti che gli americani sono dei patiti del freddo. Mi spiego meglio: sull’aereo c’era un’aria condizionata che somigliava più al ghiaccio che all’aria (precisazione d’obbligo: ovviamente ho volato con una compagnia americana). Siccome la compagnia lo sapeva che faceva freddissimo all’interno, a ogni viaggiatore veniva distribuita una bella copertona… ma io dico: semplicemente abbassare i gradi no? No…il mio primo giorno a Washington ha dimostrato che tutto ciò che è chiuso deve avere una temperatura che si aggira intorno ai 3 gradi centigradi… fuori un caldo pazzesco. Gli americani vanno matti per l’escursione termica.

Altra cosa… sull’aereo qualsiasi cosa era servita CON GHIACCIO. Quando ho chiesto l’acqua senza mi hanno guardata strano, come se avessi chiesto “dell’acqua asciutta per favore!”. Me l’hanno data, ma hanno continuato a guardarmi mentre la bevevo… come se stessi sperimentando se fosse potabile. Nel college ho capito che al ghiaccio non c’è scampo: anche qui è tutto rigorosamente servito col ghiaccio ma non puoi chiedere “without ice”, “senza ghiaccio”, perché hanno furbescamente evitato il problema. Il ghiaccio non è in un apposito secchiello così chi vuole se lo mette, no: è direttamente dentro le brocche così tu ti versi da bere e il ghiaccio te lo ritrovi incorporato nella bevanda… dall’acqua all’aranciata. Che pensiero gentile...

Altri problemi di caldo-freddo: qui la manopola della doccia gira nel senso della nostra, ma caldo e freddo sono invertiti…così per avere l’acqua tiepida si deve fare quasi un giro completo… c’ho messo tre docce per capirlo però… tre docce bollenti!

Infine… dopo aver cercato in lungo e in largo un adattatore per le prese di corrente ho scoperto che non cambia solo la presa ma anche il voltaggio… come l’ho scoperto? La cosa è conseguente alla doccia: attaccando il phon per asciugarmi i capelli questi aveva un aria tiepidina (a momenti ho creduto che essendo l’aria condizionata molto più forte del potere del phon, i miei capelli anziché asciugarsi per il potere del secondo si sarebbero ghiacciati per la forza della prima) e non solo.. l’aria andava lentissima, così lenta che se fosse andata appena più piano sarebbe andata all’indietro: avrei avuto un aspirabriciole al posto del phon! Tempo stimato per asciugarsi i capelli (senza metterli in piega): un’ora.

Stasera c’è una cena di gala per la festa di primavera. Abito per le ragazze, giacca e cravatta per i ragazzi. Non so cosa mettermi. Non perché non abbia un abito ma perché metà festa è in giardino (30 gradi), l’altra metà dentro lo studentato (30 gradi sotto zero)… si accettano consigli…