martedì, ottobre 19, 2010

A piedi verso un campo di stelle 5/5

Santiago, Epilogo
Gli insegnamenti

Chiudo questa serie di post con un epilogo che vuol essere un augurio a chi ha fatto il cammino di Santiago, a chi lo farà e a chi vorrebbe farlo ma chissà per quale motivo non partirà mai . Auguro a tutti di raggiungere la propria Compostela. Che cos’è Compostela? Letteralmente vuol dire “campo di stelle”. Auguro a tutti di raggiungere le proprie stelle. Cosa sono le stelle? Etimologicamente le stelle son desideri: “stella” in latino è “sidĕris”, da qui viene la parola desiderio, “de- sidĕris”. Auguro a tutti di realizzare i propri desideri perché sono i desideri a metterci in cammino.

Santiago mi ha insegnato a carpire dalle piccole cose dei grandi insegnamenti. Questa è una lista di oggetti che chi si mette in viaggio dovrebbe tenere a mente.



Lo zaino. Il cammino inizia ancor prima della partenza, quando devi preparare il tuo unico bagaglio. Quando decidi cosa portare e cosa no impari la differenza tra utile e necessario. Solo camminando impari a perfezionare questa differenza: molte delle cose che a casa ritenevi necessarie in realtà si rivelano essere solo “zavorra”, appesantiscono il passo. È vero anche il contrario: a tutti i pellegrini è capitato d’aver dimenticato qualcosa di essenziale che dev’essere poi acquistato lungo il cammino.

L’andare a piedi. Il ritmo dei passi mi ha svelato una delle più grandi fregature del tempo moderno: la perdita del valore del tempo e dello spazio. Mezzi di trasporto e di comunicazione hanno azzerato le distanze e in questo c’è del buono, anzi dell’ottimo (come potremmo andare a trovare un parente in America senza aereo? Come comunicargli senza Skype?). La fregatura sta nella pigrizia umana che ha smesso di suonare il campanello del vicino per chattare con pseudosconosciuti.

Le vesciche e i dolori articolari. Mi hanno insegnato a fermarmi. Il cammino non è una maratona: andare avanti a tutti i costi per l’orgoglio di finire una tappa può compromettere tutte le seguenti. Bisogna sapersi fermare per ascoltare il proprio corpo, per ascoltarsi… solo così si può trovare la propria andatura, un’andatura diversa per ciascuno ma che porta tutti alla meta. Accettare i propri limiti non vuol dire arrendersi, vuol dire ponderare, per poi godersi tutto al meglio.

Le frecce gialle. Il cammino è tutto segnato da frecce gialle che indicano la giusta direzione. Spesso erano a molta distanza l’una dall’altra e dopo aver camminato per qualche tempo senza vedere uno di quei segni rassicuranti, la paura d’essersi persi era forte… soprattutto quando la situazione si verificava in boschi deserti dai suoni sinistri. Quando la paura era tale da scatenare una discussione tra me e Francesco per capire dove avessimo sbagliato, improvvisamente spuntava beffarda su una pietra o sul tronco di un albero la freccia tanto cercata che, indicandoci la giusta direzione, ci svelava l’inutilità della nostra discussione.

I pellegrini. Dato il fastidio al ginocchio la mia andatura era tale che tutti ci superavano. Proprio tutti, compreso il gruppo del centro anziani. Inizialmente la cosa mi dava fastidio ma poi ho imparato che la vita non è una gara contro gli altri, ma con se stessi. Gli altri stanno dalla nostra parte e ci aiutano a fare una grande partita.

Il bastone. Inizialmente io e Francesco giudicavamo ridicoli tutti quei pellegrini che giravano col bastone, per noi non erano altro che dei fanatici. Alla terza tappa, tra discese e salite di montagna, ne abbiamo presi due anche noi: il bastone aiutava non poco a scaricare il peso dello zaino. Le cose che giudichiamo le più ridicole a ben vedere sono le più utili.

Camerate, bagni e sacco a pelo. Spesso diamo per scontate cose importantissime come la morbidezza delle lenzuola pulite. Gli spazi in comune ti ricordano quanto sia prezioso avere una casa, quale fortuna sia avere un proprio angolino, un posto dove stare, un posto che si sente proprio. Ti insegna anche però a non essere gelosi del proprio posto: è bello condividere quel che si ha. Qualsiasi cosa è veramente propria solo quando si sa condividerla con qualcun altro. È questa azione a dare valore alle cose.

Lavaggio panni. Durante il viaggio io e Francesco non abbiamo mai lavato i panni ognuno per conto proprio. La sera, una volta ciascuno, senza una divisione precisa dei turni, ognuno lavava le cose di entrambe. A mano. Oltre al profondo senso di gratitudine (e la proposta del nobel!) per l’inventore della lavatrice, ho provato la strana sensazione di lavare i panni di qualcun altro e di far lavare i miei panni a qualcun altro. Santiago mi ha mostrato che c’è qualcosa di magico anche nel levare la terra dai calzini sudati: le azioni non sono mai buone per se stesse, è l’amore a rendere tali anche le più insignificanti.

La fine di ogni tappa. La sera, dopo l’arrivo in albergo, spesso ci facevamo una passeggiata nel paesino per vedere cosa ci fosse. È incredibile ma per riprenderci dalla stanchezza dell’aver camminato tutto il giorno ci serviva una passeggiata. Le persone sanno sempre cosa vogliono ma difficilmente ciò di cui hanno bisogno.

La Chiesa di San Giacomo. La piazza che ha davanti mi ha dimostrato che nella vita ci si rincontra sempre. La colonna all’entrata che sono le carezze a scavare la roccia. Il sepolcro di San Giacomo che Gesù non è vissuto in un tempo troppo lontano: 2000 anni sono volati.

Gli incontri. Mi hanno dato l’insegnamento più singolare: è l’incontro fortuito a saper trasformare una faticosa tappa da 25 Km in una passeggiata in comitiva. Sono gli amici a rendere magica un’esperienza. Contano molto più della bellezza dei luoghi e della suggestione della natura. Il fiore più profumato del cosmo ha poco valore se non si ha qualcuno a cui farlo annusare e il tramonto più bello del mondo non può essere tale se non c’è qualcuno a guardarlo con noi. Nel nostro viaggio ci sono compagni di mezza giornata, compagni di una tappa e compagni di viaggio. Tutti collaborano a rendere ogni singolo giorno diverso dagli altri, tutti rendono il viaggio indimenticabile.

Se nel discorso appena fatto sostituissi la parola “Cammino” con “vita” otterrei dallo zaino e dai calzini dei grandissimi insegnamenti. Se sintetizzassi nell’ordine gli insegnamenti ottenuti nel viaggio verso quel campo di stelle direi che....

Direi che nella vita bisogna portarsi dietro solo ciò che ci migliora, tutto il resto non fa altro che appesantire il nostro passo. Direi che dobbiamo comunicare con chi è lontano ma senza dimenticarci di suonare il campanello del vicino. Direi che la via verso il successo sta nel sapersi ascoltare. Direi che l’unico vero limite è non saper riconoscere i propri limiti. Direi che bisogna fidarsi dei segni che il destino ci mette davanti per indicarci la via e se improvvisamente perdiamo la rotta direi che non bisogna disperare, ma solo cercare meglio una freccia gialla che ci indichi la giusta direzione. Direi che la vita non è una gara contro gli altri: siamo tutti parte della stessa squadra. Direi di non sottovalutare mai ciò che abbiamo. Direi che le cose che giudichiamo le più ridicole a ben vedere sono le più utili. Direi che è la condivisione a rendere prezioso ciò che possediamo. Direi che qualsiasi azione se compiuta con amore è una grande azione. Direi che sappiamo sempre cosa vogliamo ma difficilmente ciò di cui abbiamo bisogno. Direi che bisogna godersi ogni attimo perché 2000 anni possono passare molto velocemente. Direi di comportarsi sempre bene perché nella vita ci si rincontra sempre. Direi che solo le carezze possono scavare la roccia. Direi che sono gli incontri a rendere speciale il viaggio.

Sono le persone che abbiamo affianco a rendere speciale la vita: ognuno a modo proprio renderà indimenticabile questa esperienza, i compagni di mezza giornata come quelli di tutto il viaggio.

Direi che.... direi che LA META NON è L’ARRIVO, LA META è IL CAMMINO.

martedì, ottobre 12, 2010

A piedi verso un campo di stelle 4/5

Santiago, puntata quattro
L’arrivo a Santiago

L’arrivo a Santiago non è come te lo aspetti ma la cosa non deve stupire: se c’è una cosa che ho imparato durante il cammino è che nulla è davvero come te lo aspetti. Dopo giorni di boschi e sterrati, di paesini bucolici senza pavimentazione, di vegetazione che profuma l’aria di eucalipto, ci si ritrova in una grande città con i suoi negozi, il suo traffico, la sua confusione. L’arrivo ti trasforma improvvisamente da pellegrino a turista: bancarelle in ogni dove ti ricordano che devi scrivere qualche cartolina e portare a casa almeno un souvenir. Ma la confusione che è nell’aria rispecchia anche l’entusiasmo del cuore.

Chi arriva qui ce l’ha fatta e ad attenderlo di fronte alla Chiesa di San Giacomo trova tutti gli amici che il viaggio gli ha “fortuitamente” fornito. E se qualcuno manca all’appello è solo perché è un po’ in ritardo. In questa piazza non si fa in tempo a chiedersi “chissà se Tizio è arrivato…” che il Tizio in questione compare all’orizzonte.

Pare che molti la loro Santiago la trovino in questa piazza, io qui ho ritrovato l’entusiasmo che la stanchezza a volte aveva tentato di soffocare. L’entusiasmo di avercela fatta, probabilmente lo stesso che prova un maratoneta a gara conclusa. Ma non ho trovato la mia Santiago. Ero un po’ delusa: il viaggio volgeva al termine e mi aspettavo qualcosa di più, qualche folgorazione, che so, e invece niente.

Non mi era rimasto che confidare nella messa del pellegrino ma anche a quella saltò per un disguido (non si può entrare con gli zaini quindi, dopo aver fatto la fila, ci hanno fatto allontanare). Anche il ritiro della Compostela somigliava più al rilascio della carta di identità che a un momento di profonda spiritualità. Non riuscivo a capire bene se avevo sopravvalutato Santiago o se semplicemente non avevo trovato la MIA Santiago. Ad ogni modo non ero soddisfatta.

La verità è che sono una persona impaziente e credevo che raggiungere la meta geografica mi avrebbe per magia fatto raggiungere quella interiore. Ma i tempi del cuore non sono quelli dello spazio e, proprio come nella vita, le cose più belle arrivano quando si smette di cercarle.
Saltata la messa, con Bibi e Massi che avevamo rincontrato in città, ci siamo messi alla ricerca di un alloggio. Io avevo puntato un convento francescano che offre ospitalità ai pellegrini ma Massi voleva andare in un ostello dove in un viaggio precedente si era trovato “benissimo”. Il fatto che lui sia “l’esperto”, avendo fatto il cammino altre volte, fa sì che la sua idea venga presa in maggior considerazione della mia ma… al destino non si comanda: gli alberghi erano tutti pieni e il convento francescano ci ha salvato.

Io San Giacomo l’ho trovato a casa di San Francesco. Sarà che questo nome nella mia vita è importante, sarà che Assisi è vicino a Rieti, sarà che da piccola la storia di San Francesco me la raccontavano come una favola, sarà quel che sarà, ma quel posto mi ha dato la chiave di lettura di tutto il cammino. È stato lì che ho davvero riflettuto su tutto ciò che avevo affrontato e che ho capito improvvisamente che cos’è il Cammino. Il luogo in cui non ho scattato foto (tranne una all’arrivo) è quello in cui ho impresso nella mia mente i momenti più significativi di questo viaggio.

Al nostro arrivo una suora vagliava le richieste di accoglienza. Non so perché temevo ci mandassero indietro come è successo ad altri ma la simpatia di Francesco ha conquistato la suora (non ci hanno chiesto nemmeno quanti Km avessimo fatto, domanda che veniva rivolta a tutti): “Salve, le do la credenziale – poi, passandole il foglietto – scusi eh, ma lo sa che qui sembra di essere all’Università? Se la credenziale fosse il libretto degli esami… vabbè, speriamo di superarlo questo esame!”. La suora ha sorriso. Esame superato. Per entrambe, senza nemmeno una domanda.

Se avessimo avuto un voto avrei detto d’aver preso il massimo: in un convento francescano ci hanno perfino permesso di dormire nello stesso letto!... certo, era un letto a castello con me sopra e lui sotto in una camerata da 70 persone ma questi son dettagli. Battute a parte, questo posto mi ha fatto fare altri due incontri significativi: suor Anna e Marta.

Suor Anna è sarda, e il fatto che parli l’italiano ci facilita la conoscenza. Anche se forse la nostra è solo un’impressione: ripensandoci abbiamo parlato pochissimo ma a tutti ha comunicato molto. La sua figura la dice già lunga su di lei. Lei non cammina, salterella. È molto giovane e ha un viso dai lineamenti delicati. Non fosse per quell’abito grigio che rivela al mondo la sua scelta, diresti che è una bamboletta. A colpire più di tutto però è l’effetto dirompente del suo sorriso: se tutti facessimo le nostre scelte di vita con la gioia con cui lei ha preso una decisione così dura forse il mondo sarebbe un posto migliore. Ecco, se mentre stiamo scegliendo qualcosa di importante non abbiamo il suo sorriso (sul viso e nel cuore) forse dovremmo tirarci indietro: le scelte giuste danno gioia, anche quando non sono quelle scontate.
Suor Anna ci ha guidato attraverso un momento di preghiera fatto di canti allegri e luci soffuse. Un momento di preghiera in cui abbiamo sconfitto Babele: abbiamo letto il vangelo in tutte le lingue, ogni versetto in una lingua diversa (e non solo spagnolo, italiano, inglese, ma anche finlandese, ungherese e chissà cos’altro) e alla fine tutti avevano capito di che brano si trattasse. Un momento di preghiera culminato in un abbraccio. Un momento di preghiera di cui ci rimane una piccola pietra con sopra una freccia gialla che ci ricorda sempre la direzione. A me piace pensarla come il personale souvenir di Suor Anna per i pellegrini che accoglie. Vorrei raccontare altro su questa celebrazione ma non voglio levare il gusto della sorpresa a chi navigando su internet incapperà in questa pagina e deciderà di provare ad alloggiare presso l’ “Hogar de hospidalidad San Francisco de Asìs”.

Questo convento ci ha fatto fare l’ultimo incontro del Cammino: Marta. Marta è una ragazza portoghese che aveva fatto in Sicilia una specie di Erasmus. Qui aveva conosciuto una coppia di ragazzi italiani con i quali aveva stretto una bella amicizia negli anni. Spesso loro, originari di Ferrara, erano andati a trovarla in Portogallo e l’avevano rinvitata a casa loro. Avevano deciso di fare il cammino insieme ma già al secondo giorno lei si è fatta male. Si è dovuta fermare. Gli amici l’hanno lasciata al primo ostello utile e hanno continuato per giorni a camminare senza mai chiederle come stesse, ma arrabbiandosi sempre di più perché lei non riusciva a raggiungerli col pullman. Appena arrivata all’ostello francescano (non so come, camminava con le stampelle), si è buttata nelle accoglienti braccia di Suor Anna e ha iniziato a piangere dalla gioia. A lei nessuno ha chiesto la credenziale: il piede dolorosamente fasciato garantiva più di qualsiasi pezzo di carta con decine di timbri.
Bibi che in ogni donna vede una “pupa” non ha potuto resistere: ha dovuto aiutarla e, dato che c’era, ha coinvolto anche me. Non che io non volessi, ma se lui non avesse rotto il ghiaccio per me sarebbe stato molto difficile accompagnare quella sconosciuta a farsi la doccia. Per il resto ha fatto tutto lui, ha ritirato fuori i suoi ricordi di sportivo e le ha rifasciato il piede (inutile dire che la sua fasciatura le permetteva di muoversi molto meglio di quella fatta dall’ospedale).
La sera siamo andati a messa tutti insieme e, mentre io facevo la dama di compagnia chiedendole di raccontarmi come i due ferraresi l’avevano abbandonata (tuttora non riesco a capire con che spirito hanno potuto continuare a camminare) i ragazzi l’hanno trasportata… soprattutto Massi che se la è portata in spalla quasi tutto il tempo. Anche Massi e Bibi sono di Ferrara ed è bello pensare che a Santiago nulla accade per caso: in una camerata di 70 persone al torto di due ferraresi hanno posto rimedio gli unici due ferraresi della stanza.

Ci avevano assicurato che la messa delle 19 era “del pellegrino” tanto quanto quella delle 12 ma non era vero. A Santiago però nemmeno gli errori sono casuali: io dovevo essere alla messa delle 19 perché il Vangelo di quella liturgia era scritto apposta per me. Il perché, come tanti altri dettagli che son rimasti fuori da questi racconti, nel blog non ci sta: ci sono cose che è giusto rimangano nel privato.

La mattina dopo boicottammo la gita a Finisterre degli altri pellegrini perché non ha senso raggiungere la “fine del mondo” (finibus terre) se non si è prima andati alla messa del pellegrino. È quello il cardine intorno a cui ruota tutto il pellegrinaggio e se il caso aveva voluto che arrivassimo un giorno in anticipo probabilmente era per darci la possibilità di non perderci quel momento. Quella messa ha un rituale tutto suo: tradizione profana e momenti sacri si incrociano. Si va dal bacio alla statua d’oro di San Giacomo alla visita al sepolcro del Santo, questo è il momento più profondo: pensare d’essere sulla tomba di uno che era lì quando Gesù spezzava il pane e versava il vino fa sembrare molto corti i 2000 anni che ci separano da quegli eventi e, in proporzione, ti fa sentire la particella minuscola di un gioco gigante disegnato alla perfezione da Qualcuno.
Una sola cosa non volevano farci fare ma Bibi ci ha fatto infrangere tutte le regole scavalcando le transenne (ebbene sì, in Chiesa!). L’entrata principale della Chiesa di San Giacomo era in ristrutturazione ma proprio davanti la porta c’è una colonna dove i pellegrini al loro arrivo per tradizione appoggiano una mano. Negli anni le mani hanno scavato la roccia. Volevo, se non contribuire allo scavo, almeno vedere. Ce l’abbiamo fatta: abbiamo rischiato di farci cacciare dalla chiesa (niente male per dei “quasi santi” dato che quest’anno fare il cammino dà ai pellegrini l’indulgenza plenaria!) ma è stato importante vedere quell’impronta collettiva. Proprio in quel punto avevano poggiato la mano San Francesco e Giovanni Paolo II, collaborando alla stessa impressione sulla roccia.
La messa si chiude con un’enorme incensiere che fluttua sulle teste di pellegrini catturati dal movimento oscillatorio. Tutti stanno inspiegabilmente a testa in su, incantati di fronte all’ondulare banale di un pendolo spargi fumo. Un tempo il botafumeiro, che rilascia incenso, serviva a profumare i pellegrini, ma oggi non ha (apparentemente) più motivo d’esistere. Eppure continua a conservare la sua magia. Solo chi è stato a Santiago sa perchè tutti sono attratti come bambini da quell’oggetto inutile.

In quell’attimo, a messa finita, ogni pellegrino sta pensando alle speranze legate al proprio ritorno a casa, le stesse speranze che ci hanno fatto mettere tutti in Cammino. Il botafumeiro non è un semplice incensiere d’argento, ma un accentratore di pensieri che dà una forma visibile a quelle speranze, la forma di una morbida nuvola profumata. Le speranze sanno di incenso.

(FINE o inizio?)

venerdì, ottobre 01, 2010

A piedi verso un campo di stelle 3/5

Santiago, puntata tre
Passo dopo passo, incontro dopo incontro


Abbiamo fatto molti incontri sul cammino. Inizialmente non avevamo capito l’importanza di questi sconosciuti che il fato ci metteva affianco e li abbiamo snobbati (chissà quali occasioni ci siamo persi) ma dal terzo giorno ad ogni incontro siamo riusciti a dare il suo valore.

A darci una chiave di lettura giusta per gli avvenimenti è stato un piccolo incidente: pochi chilometri dopo la partenza da O’Cebreiro, mi sono arrampicata su una collinetta per fare una foto e, tornando indietro, mi ha ceduto un ginocchio. Impossibile muovere un solo passo. Non ho fatto nemmeno in tempo a disperarmi che ci hanno raggiunto due pellegrine olandesi: una era un’infermiera e l’altra aveva tutto il materiale per una fasciatura e una pomata miracolosa (emetteva calore a contatto con la pelle). L’infermiera mi ha fatto un massaggio e mi ha detto di riposare qualche minuto. Ho eseguito gli ordini della sconosciuta e ho potuto riprendere a camminare.

Può darsi sia stata una coincidenza ma per giorni abbiamo camminato quasi soli e, giusto in quel momento, è passata una pellegrina che poteva aiutarmi. Non una pellegrina qualunque (che magari nel tentativo di aiutarmi avrebbe potuto peggiorare la situazione) ma una che sapeva esattamente cosa fare e come farlo.

Questo incontro fortuito mi ha spinto a guardare con occhi diversi chiunque mi superasse augurandoci “Buen Camino”. Ho anche ripensato agli incontri che avevo fatto nei tre giorni precedenti quando, concentrata su dolori e disagi, non avevo guardato ai miei vicini con l’occhio giusto.

È stato nel riguardare indietro che ho notato molte coincidenze: la prima persona in assoluto che ci ha rivolto parola aveva un nome importante, è arrivata in un momento di sconforto, ha rallentato il suo passo per tenerci un po’ compagnia, ci ha predetto che ce l’avremmo fatta ed è sparito… è l’unica persona che non abbiamo mai più rincontrato e, non so perché, avevo immaginato finisse così.

Da Ponferrada avevamo incontrato una ragazza ucraina che stava percorrendo tutti gli 800Km del cammino, era partita dai Pirenei e con lei siamo riusciti a comunicare usando tutte le lingue e non usandone nessuna. Noi l’abbiamo aiutata a seguire le indicazioni stradali, lei ci aveva mostrato che l’impresa si poteva compiere. Nello stesso tratto abbiamo incontrato anche una coppia di romani: avevano un metodo tutto loro nell’affrontare il viaggio… ogni ora di cammino mezz’ora di pausa. Ci avevano detto che per riuscire nell’impresa bastava trovare il proprio ritmo, ma io ero ancora nella fase “maratona” per capire cosa mi stessero dicendo.

A Cacabelos abbiamo conosciuto Miguel, un bimbo di sei mesi che viaggiava sulle spalle di mamma e papà. Non so come abbiano fatto ma si sono messi in cammino: la mamma aveva avuto un incidente sulla Tour Eiffel quando era incinta e il bimbo pare sia nato sano per opera di San Giacomo… sentivano di dover ringraziare e l’hanno fatto nel più difficile dei modi.

Mentre camminavo pensando a quanto mi sarebbe piaciuto aver fatto qualche domanda in più a quelle persone, mi ero quasi dimenticata del ginocchio ma, al primo paesino incontrato, una pausa è stata d’obbligo. Avevo appena fatto il proposito di prestare più attenzione alle persone che incontravo sui miei passi che abbiamo incontrato il personaggio più singolare di tutto il viaggio: l’uccello del malaugurio.

In tre minuti che è stato seduto al bar con noi ci ha predetto tre sventure. Vedendo la fasciatura al ginocchio: “mmm… brutta cosa, secondo me è il menisco, mi sa che il tuo viaggio finisce qui, domani non cammini più!”. Dopo poco: “Ah, avete visto le piaghe di quella signora che viaggia con me? Ha preso le pulci, fate attenzione che le prendete pure voi!”. Non pago, prima di andar via: “Mi auguro voi siate sposati… no perché l’80% dei fidanzati che fa il Cammino poi si lascia!”. Ho sperato d’essere nel restante 20%. Comunque il fatto che con le prime due sventure annunciate non ci abbia colto fa pensare(e sperare) che come veggente non valesse un granché.

Per una strana legge di compensazione la tappa più anonima di tutto il viaggio è stata quella che ci ha fornito le migliori conoscenze. Abbiamo incontrato un’altra coppia di fidanzati: Gennaro e Patrizia. Lui ufficiale dei carabinieri, lei insegnante. Patrizia è rimasta in silenzio per gran parte della tappa: pur di farcela stava prendendo un sacco di antinfiammatori e camminava grazie ai bastoni e a delle potenti ginocchiere. Ho sempre pensato che il Cammino non andrebbe fatto così. Bisognerebbe fermarsi quando si sta male, non proseguire imbottendosi di antidolorifici. Il pellegrino moderno però ha una difficoltà oggettiva da affrontare: l’aereo. Una volta che si ha un biglietto aereo prenotato e le ferie che finiscono si è costretti a non seguire i ritmi del proprio corpo ma quelli del proprio impiego lavorativo.

Gennaro invece è un gran chiacchierone: abituato com’è alle missioni all’estero ha il fisico allenato e una capacità d’adattamento spaventosa. In cinque o sei ore di cammino insieme ci ha raccontato un sacco di cose… eventi dei nostri giorni visti con gli occhi delle forze dell’ordine. Leggerli sul giornale o vederli in tv non è lo stesso che camminare fianco a fianco con qualcuno che ti dice “un centimetro più in là e sarei morto”. Non solo, ci ha anche insegnato molto (probabilmente involontariamente) tra quello che deve essere il rapporto tra stampa e organi di polizia. La fiducia reciproca vale più del singolo scoop. Sei ore di lezione che all’università nessuno ti fa.

Gennaro e Patrizia avevano meno giorni di noi a disposizione e avevano programmato tappe più lunghe. Arrivati a Palas De rei noi abbiamo deciso di fermarci, loro di proseguire fino a Melide. In teoria quel giorno non eravamo troppo stanchi e avremmo potuto proseguire anche noi ma decidemmo diversamente per un motivo che neanche noi sapevamo: l’ostello di Palas De Rei ci doveva far incontrare il duo più stravagante dell’intero viaggio… così stravagante che tutte le tappe successive le abbiamo fatte praticamente insieme. Poco dopo di noi arrivarono Bibi e Massi.

BiBi in realtà si chiama Edmondo ma precisò subito: “gli amici mi chiamano Bibi”. Si era appena presentato e già aveva deciso che eravamo amici. Ci è stato subito simpatico. Un uomo di bella presenza, aitante e ovviamente pieno di donne (che lui chiama “pupe”). Ne ha ben tre che lo attendono a casa e benché ami tutte allo stesso modo è per una di queste che cammina: la Luli, con l’articolo davanti, come la chiama lui.

L’idea di venire a Santiago è di Massi: macho e cattolico fervente. È un continuo disastro, ogni minuto combina qualche pasticcio (come il farsi chiudere fuori dall’albergue o il far spaventare tutti per un’allergia alimentare sul petto che poi si rivela essere una semplice irritazione da lametta…) ma ha una cultura religiosa che riesce sempre a mandarci tutti in crisi. Parlare con lui è un continuo interrogare se stessi, Massi è un ormone della crescita spirituale. Parlare con lui di fede qualche giorno mi ha fatto fare tante domande, quante me ne ero fatte in tutta la mia vita.

Anche lui è qui per Luli, un tipetto affascinante che ci cattura al solo sentirla nominare, senza conoscerla. Pare sia un angelo, ma a dirlo non è Bibi (sarebbe di parte dato che è il papà) ma Massi, il di lei insegnante. Sì, perché Luli va ancora a scuola, ha solo 17 anni e all’epoca la attendeva un delicato intervento alla spina dorsale. Adesso è facile dirlo ma, ovviamente, quell’intervento è andato bene.

Bibi per lei ha fatto 106 Km a piedi. Lui dice “il minimo sindacale” dato che 100 Km è la distanza minima da percorrere se si vuole ottenere la Compostela. Per me invece lui ha fatto il massimo: in quei giorni ha camminato solo verso Santiago, ma lui il Cammino lo fa a casa propria… quei 106 Km sono puramente simbolici, un periodo di riposo per chi come lui ogni giorno affronta la vita e, nonostante tutta la fatica, ogni sera ha la forza di giocare sul lettone con la moglie e le due figlie (le tre pupe di cui è innamorato, appunto).

L’ultimo incontro prima dell’arrivo a Santiago è stato di pochi minuti ma illuminante. Io e Francesco ci eravamo fermati vicino all’aeroporto: a Santiago mancavano appena 12-13 Km e dovevamo decidere se arrivare in città in serata o fermarci nel primo posto utile e proseguire la mattina seguente arrivando da pellegrini (quindi un po’ stanchi) in tempo per la messa.

Mentre studiavamo la cartina ci ha sorpassato un signore 60enne di Brescia che proseguiva a passo svelto e non sembrava volersi fermare. Il tempo di dire “Buen Camino” ed è andato avanti. Dopo qualche metro è tornato indietro però: aveva qualcosa da dirci. Abbiamo parlato qualche minuto e lui ci ha detto che era convinto di arrivare a Santiago (noi avevamo già preso la decisione contraria) in serata. Abbiamo provato a dissuaderlo dato che era visibilmente stanco e ci aveva confessato d’aver avuto qualche problema di pressione ma lui era determinato: aveva già fatto 40 Km, una decina in più non lo spaventavano.

Ero esterrefatta: 50 Km in un solo giorno sono 14 ore di cammino! Non ci potevo credere… non sono riuscita a frenare un “Ma come cavolo ha fatto?!” e lui, con una naturalezza pazzesca: “più la meta si avvicina più mi viene la forza e sapete perché? Non si cammina coi piedi… non si cammina che col cuore”.

Pernottammo a 10 Km dalla meta e il giorno dopo eravamo a Santiago. Pensavamo gli incontri fossero finiti invece la città di San Giacomo aveva ancora qualcuno da farci conoscere e, soprattutto, sulla piazza la mattina della messa aveva deciso di farci un’altra sorpresa. Sembrava che ci si fosse dato appuntamento: eravamo tutti lì.

(to be continued...)