martedì, aprile 21, 2009

America, puntata tre. Il primo giorno di lavoro

Ieri, previdentemente, ho pensato di farmi una bella camminata per Washington per vedere dove si trovasse l’Ansa. Cartina alla mano ho fatto il percorso fino al Nazional Press Buiding a piedi.

Giornata stupenda. Il sole risplendeva rendendo il cielo di Washington d’un azzurro quasi irreale, la temperatura primaverile rendeva piacevole camminare, dai giardini dei vicini spuntavano fuori persino gli scoiattoli e la città era colorata da miriadi di fiori. Washington è la città dei fiori: ci sono tulipani ovunque e non solo quelli. Arrivo alla sede dell’Ansa, tempo stimato: 45 minuti.

Non è proprio vicinissimo ma è così bello qui che farsi una camminata di 45 minuti è un piacere (senza considerare che con quello che mi danno da mangiare qui può essere un modo d’evitare di ingrassare 10 Kg in 10 settimanne!).Torno a casa, chiamo l’Ansa per sapere a che ora mi devo presentare l’indomani (cioè oggi). Mi dicono che di norma dovrò essere li alle 8, ma che essendo il primo giorno è meglio vada per le 9 che prima nessuno mi può filare. Perfetto. Ieri sera dopo la festa sono andata a dormire mettendo la sveglia alle 7, sarei partita da qui alle 8 e sarei arrivata pure un po’ in anticipo (o meglio, diciamo che quei 25 minuti di margine me li sono presi nell’eventualità in cui avessi sbagliato strada…).

Stamattina la sveglia suona alle sette… mi sembra strano siano già le sette: la camera è stranamente buia…dalla finestra filtra poca luce. Non potendo aprire la finestra (le mie coinquiline dormivano tutte) decido che se c’è poca luce è perché è effettivamente presto. Mi vesto con l’abbigliamento previdentemente preparato la sera prima vado in bagno e… TRAGEDIA: qui la finestra era già aperta e non potevo dedurre niente… semplicemente DILUVIAVA.

“Non c’è male come primo giorno” ho pensato…ormai era tardi per cambiarmi. Ho preso l’ombrello, sono scesa a fare colazione e sono partita verso l’ansa. Ovviamente non potevo prendere i mezzi: ieri era una giornata così favolosa che non avevo preso nemmeno in lontanissima considerazione l’idea di calcolare percorsi alternativi. E poi l’unica cosa fattibile sarebbe stata la metro, ma comunque c’erano 10 minuti di cammino per arrivare alla fermata e non sapendo dove mi avrebbe lasciato e come da li avrei potuto raggiungere l’Ansa, ho furbescamente deciso che tanto valeva andare a piedi.

L’ombrellino che avevo comprato dai cinesi (in Italia) per i primi 5 minuti è stato utile, poi ha iniziato a pioverci dentro. Passando davanti la casa Bianca mi sono detta (non ridete, adesso mi rendo conto che è una stupidaggine ma lì per lì mi è sembrata una cosa serissima) che quello era solo l’inizio del mio “american dream”, tutti gli american dreams iniziano così… nel peggiore dei modi.

Arrivo al National Press Building. All’entrata una vistosa portiere di colore mi accoglie col sorriso. Già mi sentivo meglio non piove più (non perché avesse smesso, ma perché ero al chiuso) e la gente mi sorrideva. Mi avvicino chiedendo dell’Ansa. Panico… ci vuole lo spelling: loro lo pronunciano diversamente e non mi capiva. Il mio quarto d’ora d’anticipo tra la pioggia e lo spelling era andato a farsi benedire. Comunque, capito cosa cercavo, mi fa iscrivere in un registro e sentenzia: “ twelve – eightyfive”, 12-85… che vuol dire?...proseguo: “Excuse me, It’s my first day of work, may you help me? Where Do I have to go?”. Risposta: “Twelve – eightyfive”.

Bene…mi avvio verso gli ascensori…qualcosa mi verrà in mente. Nei meandri del mio cervello pizzico una nozione che non so chi e quando mi aveva detto (ah, che cosa non si verifica nei momenti del bisogno!): “L’Ansa è al dodicesimo piano del National Press Building”… dodicesimo, dodici… ok, dodici sarà il piano, ottantacinque la stanza!

Salgo in ascensore sentendomi un genio…e sentendomi anche bagnata: passata l’emozione ho realizzato che l’ombrello cinese m’aveva coperto dalla vita in su… dei miracolosi stivaletti a caviglia avevano salvato i miei piedi, ma avevo le gambe completamente bagnate. Siccome però bisogna sempre prendere il meglio dalle cose per un attimo sono stata quasi contenta: il nero dei miei pantaloni bagnati era molto più bello degli stessi asciutti…avrei fatto una bella figura.

Si aprono le porte dell’ascensore e (ovviamente!) imbocco il corridoio sbagliato. Corretto l’errore arrivo alla porta 85. Non mi sentivo più un genio…metti caso mi fossi sbagliata nel mio ragionamento e lì ci fosse l’agenzia indiana? Che gli dicevo a un indiano??

…vabbè, ormai ero lì, tanto valeva provare. Manco potevo chiamare che il mio telefonino in America non funziona. Busso. Mi aprono. Non sono indiani.

Entro. Fantastico: parlano italiano! Ho azzeccato. Iniziano le presentazioni. Non solo. Ricevo la domanda che m’ero rassegnata a sentire tra due mesi: “Vuoi un caffè?”. Effetto strano…non ci credevo, infatti ho risposto: “Dipende…avete il caffè vero?”. Risposta: “Guarda!”. Mi aprono la porta d’uno stanzino…una specie di cucinina col bidone dell’acqua, qualche pensile, un lavandino e…troneggiante accanto al fornetto, la macchina Lavazza del caffè espresso. Non sono riuscita a trattenere un “Quanto vi voglio bene!”. Solitamente non sono così espansiva, ma ero commossa! Si sono messi tutti a ridere. Ho preso il mio caffè, mi hanno dato i giornali.

Non potevo far nulla, dovevamo aspettare la signora Maria che mi procurasse una password per usare il pc e mi spiegasse come funzionano i programmi. All’arrivo di Maria cambio di registro: hanno iniziato tutti a parlare inglese. Lei l’Italiano non lo sa (credo lo capisca ma non sappia parlarlo) e ho dedotto che per cortesia tutti parlavano inglese, non solo con lei ma anche tra di loro.

Procuratami la passwor Maria mi spiega come usare i vari programmi, poi mi regala penne, quaderni e… UN TELEFONO! Cioè…non è che proprio me lo regala, devo restituirlo a fine stage che è dell’Ansa, ma dopo due giorni di comunicazioni nulle con l’Italia avere un telefono era una cosa talmente bella che non osavo manco desiderarla!! Il mio piccolo american dream si stava realizzando… caffè, giornali, telefono, penne e quaderni in omaggio… uno spettacolo!

Ma non è finita: per pranzo è arrivata la pizza! È stato in quel momento che ho capito d’essermi trovato un angolino d’Italia a Washington. Non so perché, ma una volta trovata la mia Little Italy Washington m’è piaciuta ancora di più.

Di nuovo non mi sono potuta trattenere: mentre mangiavamo ho esternato tutta la mia gioia dicendo: “è un sogno, sono qui da poche ore ho avuto pizza, caffè e un telefono per avere contatti col mondo…”. Mi sono sentita rispondere: “Guarda che adesso si lavora anche!”. Tutti a ridere.

Comunque, m’hanno dato da fare 20 righe sul decennale della strage alla Colombine…non proprio una cosa allegrissima, però…è andata bene. L’hanno trasmessa solo con qualche piccola correzione. Oggi c’era poco da fare e così ho anche potuto passare un po’ di tempo su facebook…giornata favolosa. Dimenticavo: m’hanno anche dato le chiavi della redazione!

Stanca morta alle sei sono tornata a casa, doccia veloce e poi di corsa a cena: alle 7 chiudono la sala. A differenza degli altri giorni in cui sono stata qui, oggi la sala era piena, pienissima. Panico: vicino a chi mi siedo? I pochi posti vuoti erano in tavoli dove non conoscevo nessuno… Tergiverso nel riempire il mio vassoio e studio la situazione… fortunatamente una ragazza vicino alla mia compagna di stanza si alza e io mi siedo a quel tavolo: almeno conosco lei!

Scambiamo tre parole. Se c’è una cosa che ho capito in questi giorni è che lei è poco socievole. Ho provato a farla parlare ma niente…mi rispondeva solo “Yes” e “No” e così ho lasciato perdere. Già è difficile intavolare una discussione in Inglese, figuriamoci se l’altro ti risponde a monosillabi…inglesi pure quelli!

Rassegnata a mangiare in silenzio vedo un ragazzo al lato opposto del tavolo che mi saluta…panico: lo conosco o non lo conosco? Uff… troppa gente nuova in questi giorni…
Dico solo “Hallo!” e lui: “I saw you talking yesterday at the dinner party! Are you new?”. Ok, almeno una cosa era sicura, non lo conoscevo. Mi presento e anche lui si presenta, si chiama Leo (che si legge Lio) e viene dai Paesi Bassi. C’avrei scommesso che era europeo: sto imparando a riconoscere le persone dagli atteggiamenti…non male in due giorni.

Ci mettiamo a parlare io, lui, due ragazze orientali e la cinesina che ieri mi ha accompagnato a fare la spesa. (Altra cosa che ho imparato in due giorni: so distinguere i cinesi…). Ci raccontiamo le nostre giornate, sono tutti interessati alla mia (“It’s your first day!”) e poi mi raccontano di loro. Tutti studiano, tranne Leo che non ho ben capito cosa venuto a fare qui…fa avanti indietro con i Paesi bassi finchè non trova un lavoro che gli permetta di trasferirsi qui, ma detta così non m’è sembrata una grande occupazione.

Tutto il resto della cena abbiamo parlato dell’Italia. Leo ha un fratello che lavora ad Arciano e continuava a farmi domande e tutti erano così interessati…è stato bello. Fingevano di non sentire i miei errori di pronuncia pur di sentirmi raccotare di “Rome, Venice, Naples and Verona”.

Finita la cena abbiamo sistemato i vassoi, mentre salivo le scale in pietra e legno ho realizzato che quella che m’era successa era una cosa stranissima: sedersi al tavolo a parlare con degli sconosciuti (ribadisco, so solo due nomi!) della propria giornata di lavoro e ascoltare sinceramente interessati delle loro, tra l’altro ignorando i loro nomi, è una cosa da folli. Eppure è successa ed è stato bellissimo. Certe cose non stanno né in cielo né in terra…Solo in America.

1 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

l'inizio di un'avventura-romanzo stupendo....

sai distinguere i cinesi!!ahahahahah!!!

LOVE

3:25 PM

 

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