martedì, ottobre 12, 2010

A piedi verso un campo di stelle 4/5

Santiago, puntata quattro
L’arrivo a Santiago

L’arrivo a Santiago non è come te lo aspetti ma la cosa non deve stupire: se c’è una cosa che ho imparato durante il cammino è che nulla è davvero come te lo aspetti. Dopo giorni di boschi e sterrati, di paesini bucolici senza pavimentazione, di vegetazione che profuma l’aria di eucalipto, ci si ritrova in una grande città con i suoi negozi, il suo traffico, la sua confusione. L’arrivo ti trasforma improvvisamente da pellegrino a turista: bancarelle in ogni dove ti ricordano che devi scrivere qualche cartolina e portare a casa almeno un souvenir. Ma la confusione che è nell’aria rispecchia anche l’entusiasmo del cuore.

Chi arriva qui ce l’ha fatta e ad attenderlo di fronte alla Chiesa di San Giacomo trova tutti gli amici che il viaggio gli ha “fortuitamente” fornito. E se qualcuno manca all’appello è solo perché è un po’ in ritardo. In questa piazza non si fa in tempo a chiedersi “chissà se Tizio è arrivato…” che il Tizio in questione compare all’orizzonte.

Pare che molti la loro Santiago la trovino in questa piazza, io qui ho ritrovato l’entusiasmo che la stanchezza a volte aveva tentato di soffocare. L’entusiasmo di avercela fatta, probabilmente lo stesso che prova un maratoneta a gara conclusa. Ma non ho trovato la mia Santiago. Ero un po’ delusa: il viaggio volgeva al termine e mi aspettavo qualcosa di più, qualche folgorazione, che so, e invece niente.

Non mi era rimasto che confidare nella messa del pellegrino ma anche a quella saltò per un disguido (non si può entrare con gli zaini quindi, dopo aver fatto la fila, ci hanno fatto allontanare). Anche il ritiro della Compostela somigliava più al rilascio della carta di identità che a un momento di profonda spiritualità. Non riuscivo a capire bene se avevo sopravvalutato Santiago o se semplicemente non avevo trovato la MIA Santiago. Ad ogni modo non ero soddisfatta.

La verità è che sono una persona impaziente e credevo che raggiungere la meta geografica mi avrebbe per magia fatto raggiungere quella interiore. Ma i tempi del cuore non sono quelli dello spazio e, proprio come nella vita, le cose più belle arrivano quando si smette di cercarle.
Saltata la messa, con Bibi e Massi che avevamo rincontrato in città, ci siamo messi alla ricerca di un alloggio. Io avevo puntato un convento francescano che offre ospitalità ai pellegrini ma Massi voleva andare in un ostello dove in un viaggio precedente si era trovato “benissimo”. Il fatto che lui sia “l’esperto”, avendo fatto il cammino altre volte, fa sì che la sua idea venga presa in maggior considerazione della mia ma… al destino non si comanda: gli alberghi erano tutti pieni e il convento francescano ci ha salvato.

Io San Giacomo l’ho trovato a casa di San Francesco. Sarà che questo nome nella mia vita è importante, sarà che Assisi è vicino a Rieti, sarà che da piccola la storia di San Francesco me la raccontavano come una favola, sarà quel che sarà, ma quel posto mi ha dato la chiave di lettura di tutto il cammino. È stato lì che ho davvero riflettuto su tutto ciò che avevo affrontato e che ho capito improvvisamente che cos’è il Cammino. Il luogo in cui non ho scattato foto (tranne una all’arrivo) è quello in cui ho impresso nella mia mente i momenti più significativi di questo viaggio.

Al nostro arrivo una suora vagliava le richieste di accoglienza. Non so perché temevo ci mandassero indietro come è successo ad altri ma la simpatia di Francesco ha conquistato la suora (non ci hanno chiesto nemmeno quanti Km avessimo fatto, domanda che veniva rivolta a tutti): “Salve, le do la credenziale – poi, passandole il foglietto – scusi eh, ma lo sa che qui sembra di essere all’Università? Se la credenziale fosse il libretto degli esami… vabbè, speriamo di superarlo questo esame!”. La suora ha sorriso. Esame superato. Per entrambe, senza nemmeno una domanda.

Se avessimo avuto un voto avrei detto d’aver preso il massimo: in un convento francescano ci hanno perfino permesso di dormire nello stesso letto!... certo, era un letto a castello con me sopra e lui sotto in una camerata da 70 persone ma questi son dettagli. Battute a parte, questo posto mi ha fatto fare altri due incontri significativi: suor Anna e Marta.

Suor Anna è sarda, e il fatto che parli l’italiano ci facilita la conoscenza. Anche se forse la nostra è solo un’impressione: ripensandoci abbiamo parlato pochissimo ma a tutti ha comunicato molto. La sua figura la dice già lunga su di lei. Lei non cammina, salterella. È molto giovane e ha un viso dai lineamenti delicati. Non fosse per quell’abito grigio che rivela al mondo la sua scelta, diresti che è una bamboletta. A colpire più di tutto però è l’effetto dirompente del suo sorriso: se tutti facessimo le nostre scelte di vita con la gioia con cui lei ha preso una decisione così dura forse il mondo sarebbe un posto migliore. Ecco, se mentre stiamo scegliendo qualcosa di importante non abbiamo il suo sorriso (sul viso e nel cuore) forse dovremmo tirarci indietro: le scelte giuste danno gioia, anche quando non sono quelle scontate.
Suor Anna ci ha guidato attraverso un momento di preghiera fatto di canti allegri e luci soffuse. Un momento di preghiera in cui abbiamo sconfitto Babele: abbiamo letto il vangelo in tutte le lingue, ogni versetto in una lingua diversa (e non solo spagnolo, italiano, inglese, ma anche finlandese, ungherese e chissà cos’altro) e alla fine tutti avevano capito di che brano si trattasse. Un momento di preghiera culminato in un abbraccio. Un momento di preghiera di cui ci rimane una piccola pietra con sopra una freccia gialla che ci ricorda sempre la direzione. A me piace pensarla come il personale souvenir di Suor Anna per i pellegrini che accoglie. Vorrei raccontare altro su questa celebrazione ma non voglio levare il gusto della sorpresa a chi navigando su internet incapperà in questa pagina e deciderà di provare ad alloggiare presso l’ “Hogar de hospidalidad San Francisco de Asìs”.

Questo convento ci ha fatto fare l’ultimo incontro del Cammino: Marta. Marta è una ragazza portoghese che aveva fatto in Sicilia una specie di Erasmus. Qui aveva conosciuto una coppia di ragazzi italiani con i quali aveva stretto una bella amicizia negli anni. Spesso loro, originari di Ferrara, erano andati a trovarla in Portogallo e l’avevano rinvitata a casa loro. Avevano deciso di fare il cammino insieme ma già al secondo giorno lei si è fatta male. Si è dovuta fermare. Gli amici l’hanno lasciata al primo ostello utile e hanno continuato per giorni a camminare senza mai chiederle come stesse, ma arrabbiandosi sempre di più perché lei non riusciva a raggiungerli col pullman. Appena arrivata all’ostello francescano (non so come, camminava con le stampelle), si è buttata nelle accoglienti braccia di Suor Anna e ha iniziato a piangere dalla gioia. A lei nessuno ha chiesto la credenziale: il piede dolorosamente fasciato garantiva più di qualsiasi pezzo di carta con decine di timbri.
Bibi che in ogni donna vede una “pupa” non ha potuto resistere: ha dovuto aiutarla e, dato che c’era, ha coinvolto anche me. Non che io non volessi, ma se lui non avesse rotto il ghiaccio per me sarebbe stato molto difficile accompagnare quella sconosciuta a farsi la doccia. Per il resto ha fatto tutto lui, ha ritirato fuori i suoi ricordi di sportivo e le ha rifasciato il piede (inutile dire che la sua fasciatura le permetteva di muoversi molto meglio di quella fatta dall’ospedale).
La sera siamo andati a messa tutti insieme e, mentre io facevo la dama di compagnia chiedendole di raccontarmi come i due ferraresi l’avevano abbandonata (tuttora non riesco a capire con che spirito hanno potuto continuare a camminare) i ragazzi l’hanno trasportata… soprattutto Massi che se la è portata in spalla quasi tutto il tempo. Anche Massi e Bibi sono di Ferrara ed è bello pensare che a Santiago nulla accade per caso: in una camerata di 70 persone al torto di due ferraresi hanno posto rimedio gli unici due ferraresi della stanza.

Ci avevano assicurato che la messa delle 19 era “del pellegrino” tanto quanto quella delle 12 ma non era vero. A Santiago però nemmeno gli errori sono casuali: io dovevo essere alla messa delle 19 perché il Vangelo di quella liturgia era scritto apposta per me. Il perché, come tanti altri dettagli che son rimasti fuori da questi racconti, nel blog non ci sta: ci sono cose che è giusto rimangano nel privato.

La mattina dopo boicottammo la gita a Finisterre degli altri pellegrini perché non ha senso raggiungere la “fine del mondo” (finibus terre) se non si è prima andati alla messa del pellegrino. È quello il cardine intorno a cui ruota tutto il pellegrinaggio e se il caso aveva voluto che arrivassimo un giorno in anticipo probabilmente era per darci la possibilità di non perderci quel momento. Quella messa ha un rituale tutto suo: tradizione profana e momenti sacri si incrociano. Si va dal bacio alla statua d’oro di San Giacomo alla visita al sepolcro del Santo, questo è il momento più profondo: pensare d’essere sulla tomba di uno che era lì quando Gesù spezzava il pane e versava il vino fa sembrare molto corti i 2000 anni che ci separano da quegli eventi e, in proporzione, ti fa sentire la particella minuscola di un gioco gigante disegnato alla perfezione da Qualcuno.
Una sola cosa non volevano farci fare ma Bibi ci ha fatto infrangere tutte le regole scavalcando le transenne (ebbene sì, in Chiesa!). L’entrata principale della Chiesa di San Giacomo era in ristrutturazione ma proprio davanti la porta c’è una colonna dove i pellegrini al loro arrivo per tradizione appoggiano una mano. Negli anni le mani hanno scavato la roccia. Volevo, se non contribuire allo scavo, almeno vedere. Ce l’abbiamo fatta: abbiamo rischiato di farci cacciare dalla chiesa (niente male per dei “quasi santi” dato che quest’anno fare il cammino dà ai pellegrini l’indulgenza plenaria!) ma è stato importante vedere quell’impronta collettiva. Proprio in quel punto avevano poggiato la mano San Francesco e Giovanni Paolo II, collaborando alla stessa impressione sulla roccia.
La messa si chiude con un’enorme incensiere che fluttua sulle teste di pellegrini catturati dal movimento oscillatorio. Tutti stanno inspiegabilmente a testa in su, incantati di fronte all’ondulare banale di un pendolo spargi fumo. Un tempo il botafumeiro, che rilascia incenso, serviva a profumare i pellegrini, ma oggi non ha (apparentemente) più motivo d’esistere. Eppure continua a conservare la sua magia. Solo chi è stato a Santiago sa perchè tutti sono attratti come bambini da quell’oggetto inutile.

In quell’attimo, a messa finita, ogni pellegrino sta pensando alle speranze legate al proprio ritorno a casa, le stesse speranze che ci hanno fatto mettere tutti in Cammino. Il botafumeiro non è un semplice incensiere d’argento, ma un accentratore di pensieri che dà una forma visibile a quelle speranze, la forma di una morbida nuvola profumata. Le speranze sanno di incenso.

(FINE o inizio?)

4 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

bello ed emozionante come sempre...
belle le frasi in gialletto..

love

10:49 PM

 
Blogger Monia ha detto...

che è il "gialletto"? ah ah ah

11:00 PM

 
Anonymous Pinuccia ha detto...

che meraviglia! Da commozione!

8:39 AM

 
Blogger Monia ha detto...

Pina... se i commenti continuano così finisce che ti faccio venire la voglia di andare a Santiago... ;)

10:35 PM

 

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