mercoledì, novembre 28, 2007

una pagina poco conosciuta delle storia italiana: quando a deportare eravamo noi...


Il 29 settembre del 1911 Giovanni Giolitti, senza aver atteso l’approvazione del parlamento, decide di occupare la Libia. Lo stesso giorno viene fatta la dichiarazione di guerra. Il 23 ottobre l’esercito italiano viene attaccato a Sciara Sciat (oasi di Tripoli), e si registrano perdite per centinaia di uomini, soprattutto bersaglieri, per mano dei reparti turchi e degli abitanti arabi ostili all’occupazione. A seguito di questo evento il primo ministro italiano decide di deportare in massa i libici ribelli.
Il 29 ottobre, esattamente un mese dopo la dichiarazione di guerra, la nave Serbia scarica sulle spiagge rocciose delle Tremiti i primi deportati. L’arcipelago nel giro di due anni ne accoglierà 4767. Quasi tutti moriranno per epidemie di colera, di tifo o di stenti.
Per ricordare questi tragici eventi il sindaco del Comune di Isole Tremiti, Giuseppe Calabrese, ha organizzato e guidato il convegno I deportati libici in Italia negli anni 1911-’12, svoltosi lunedì 29 ottobre presso l’archivio centrale dello Stato, a Roma.
All’iniziativa hanno partecipato personalità autorevoli di ambedue gli Stati. Primo fra tutti Massimo D’Alema, Ministro degli Affari Esteri, che ha visto nell’incontro un passo importante per il lungo processo di avvicinamento della Libia all’Unione Europea. “L’attuale governo ha raccolto e continuato l’opera del precedente di fare un grande gesto che ci consenta di voltare pagina su questa vicenda”, e a giorni è previsto si arrivi a un approdo definitivo degli accordi in fase di elaborazione col governo libico. Nell’affermare che questa iniziativa che dà spazio alla verità di fatti a lungo taciuti è un primo essenziale passo per riavvicinare i due paesi, il Ministro D’Alema è ottimista nel guardare al futuro.
Della sua stessa opinione Giuseppe Calabrese e Nicola La Banca (docente di storia contemporanea all’Università di Siena) che vedono in questi progetti la volontà degli ex-paesi colonizzatori di ripensare il proprio passato coloniale, e di mettersi in discussione per un futuro migliore per entrambe le parti coinvolte.
Di parere diverso invece Abdulhafed Gaddur (ambasciatore di Libia in Italia) e Mohammed Gerrari: la “parte libica” del convegno. Il primo parla della colonizzazione come “la tragedia del suo popolo”, e chiede il test del dna per tutti gli abitanti delle Tremiti per scoprire in quanti di loro scorre sangue libico. Ancora più pesanti le dichiarazioni del secondo, Gerrari, il cui arabo è così concitato da riuscire a mettere in difficoltà i due interpreti che traducono il suo intervento. Sostiene che l’Italia sta facendo qualcosa, ma non abbastanza, che sta facendo quello che lei vuole, ma non quello che le viene richiesto. La prima cosa che il popolo libico vorrebbe è un museo per il loro olocausto, e lo vorrebbe a Roma “proprio come quello degli ebrei”. Chiedono questo dal ’98 e si sentono presi in giro dagli italiani che “fanno un sacco di accordi che poi rimangono solo sulla carta”, senza considerare che “attualmente per ottenere un visto è inutile rivolgersi all’ambasciata italiana, si fa prima utilizzando un passaggio intermedio per l’ambasciata francese o tedesca”.La sala è stracolma di gente, c’è persino chi sta in piedi e il clima è molto animato. Ognuno vorrebbe dire la sua e il moderatore Calabrese fa fatica a svolgere il proprio compito, ma alla fine ci riesce dimostrando che qualcosa di concreto è stato fatto: non solo sulle Tremiti è costruito un mausoleo dove i parenti delle vittime delle deportazioni possono piangere i loro defunti, ma è stato anche depositato un fondo economico all’Isiao (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) per risarcire le vittime delle deportazioni o i loro discendenti.

martedì, novembre 27, 2007

Fellini oniricon: il libro dei miei sogni



“Segnacci, appunti affrettati e sgrammaticati”, così l’autore stesso definiva quello che oggi è un volume da 300 euro a copia.
Si intitola “Il libro dei sogni”, ed è un diario tenuto da Federico Fellini dalla fine degli anni ’70 agli anni ’90, in cui il grande regista sotto forma di disegni ha appuntato, sogni e incubi notturni. 400 pagine straordinarie da cui rivivono in una luce nuova spunti dei suoi film, persone da lui incontrate, personaggi e avvenimenti dell’Italia dell’ultimo secolo.
Documento inedito, che probabilmente l’autore avrebbe creduto rimanesse tale, il diario (dal 17 ottobre in vendita in libreria) è stato protagonista della mostra Fellini Oniricon all’Auditorium Parco della Musica nel più ampio contesto della Festa del Cinema di Roma.
L’esposizione, a cura di Tullio Kezich (biografo di Fellini per antonomasia) e Vittorio Boarini (direttore della Fondazione Fellini), vuole dare a tutti il “privilegio di venire ammessi alla contemplazione del mondo interiore di un tale artista”, ed è davvero un privilegio muoversi tra quello che Fellini stesso definisce il suo “lavoro notturno”: attraverso i disegni si conosce la parte più intima e privata del regista, le sue paure, i suoi pensieri, i ricordi, gli affetti e persino le antipatie. Soprattutto si vede la stretta relazione che collega il suo cinema al mondo onirico.
Anche se Fellini non ha mai fatto un film composto interamente con sogni ( a differenza di suoi amici come Kurosawa in “Dreams” e Dalì in “Il cane andaluso”) nelle sue pellicole tratta spesso la realtà come sognata: “8 e mezzo” (1963) si apre con il vero e proprio incubo di ritrovarsi in un ingorgo automobilistico, “Le tentazioni del Dott. Antonio” (1962) è basata sull’ossessione del censore sessuofobo che vede scendere la diva Anita in carne e ossa da un cartellone pubblicitario, “Giulietta degli Spiriti” (1965) intreccia le fantasticherie di una moglie con la monotonia della vita coniugale, infine “Il Casanova” (1976) si conclude con il vecchio seduttore che dopo aver detto “Ho fatto un…” si aggira ringiovanito in una gelida Venezia. Ma se tutti questi film hanno solo un indiretto riferimento al diario, l’ultimo lavoro girato da Fellini è stata la campagna pubblicitaria della Banca di Roma: tre spot ritagliati direttamente dal “libro dei sogni” con un Paolo Villaggio bloccato al volante in una galleria che crolla, alle prese con un leone che piange impegnato a mangiare sui binari mentre sta arrivando un treno. “Se togli il sogno dalla filmografia del Maestro ne hai cancellato la parte più caratteristica e personale”, afferma Kezich a proposito.
Ma, benché ne costituisca la parte principale, l’oggetto dei suoi sogni non è solo il cinema. Rivivono in tratti di colore netti e decisi il travagliato rapporto col padre Urbano, quello con la città natale (Rimini), e il ricordo di profonde amicizie finite per incompatibilità caratteriali: tra queste Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Ennio Flaiano, Piero Ghepardi e Danilo Donati.
Dalla penna del regista escono disegni che somigliano a vignette, da Pablo Picasso a Giorgio Strehler, da Orson Welles a Salvator Dalì, da Eduardo a Totò, da Vittorio De Sica a Dario Fo, da Kennedy a Moro, da Craxi a Sofia Loren, da Giovanni Agnelli sequestrato dal bandito Vallanzasca a Sergio Zavoli (suo amico e presentatore della mostra). Non c’è personaggio che Fellini non abbia conosciuto, sognato e ritratto in questo diario. Impossibile citare la lista completa di visi da lui scarabocchiati: conta più di cento nomi.
Come dire che non ci sia personaggio del ‘900 che non sia stato ritratto dalla mente e dalla penna felliniana.