lunedì, settembre 27, 2010

A piedi verso un campo di stelle 2/4

Santiago, puntata due
Rimanere, una decisione giusta

Erano passati tre giorni. Tre giorni di inferno. La decisione più logica sarebbe stata abbandonare tutto, prendere un pullman fino a Santiago e passare il resto del viaggio lì. Se non ho mollato è stato solo per (lo ammetto) uno stupido orgoglio: ce la facevano gli altri, dovevo farcela pure io.
Ad un certo punto però Francesco si è imposto, mi ha costretto ad arrendermi. Lui non si era mai sognato nella vita di fare un’esperienza del genere e si è ritrovato in questa avventura solo perché tra l’idea dell’affrontare il cammino in prima persona e l’eventualità di mandarmi da sola aveva preferito la prima. Da vero uomo aveva deciso di assecondare la sua ragazza pazza e, sempre da vero uomo, al momento giusto ha posto un freno alla di lei pazzia: mi ha costretto a prendere un pullman.

Non fino a Santiago però, solo per una parte della tappa che andava da Tricastela a O’ Cebreiro. Ero incazzatissima: per colpa sua, solo sua, stavamo fallendo nell’impresa. Se aveva intenzione di arrendersi poteva starsene a casa invece di rovinare i progetti altrui, pensai.
In realtà ero solo arrabbiata e la rabbia non ti fa vedere le cose con la luce giusta, solo il senno di poi mi ha mostrato che aveva ragione lui. Tanto per cominciare lui stava benissimo (l’unico pellegrino senza il minimo acciacco, senza neanche una vescichetta o un po’ di dolore da qualche parte… è vero che usavamo il voltaren come fosse una crema dopo doccia ma stavano tutti male lo stesso, tranne lui: ho scoperto d’essere fidanzata con Ironman!) e se aveva preso questa decisione era solo per il mio ginocchio che io, stupidamente, avevo deciso di non ascoltare. Ci ho messo un pò a capirlo. Lo stesso tempo che mi ci è voluto per calmarmi.

Mentre ero sul pullman pensavo d’aver “barato”, d’aver “rubato” ma più i chilometri scorrevano più mi rendevo conto che non avrei potuto farcela: la lunghezza della tappa e la pendenza mi avrebbero ucciso (dai 650m sul livello del mare di Tricastela si passa ai 1300 di O’Cebreiro in 20 Km di salita). Sono stata grata a Francesco ma lì per lì non gliel’ho detto (ho ceduto il giorno dopo).

La prima lezione personale che mi ha dato il cammino è passata attraverso l’unico tratto in cui non abbiamo camminato… c’è della magia anche in questo. Ho imparato l’importanza dell’accettare i propri limiti.

Arrivati a Pedrafita (5 Km da O’ Cebreiro) un taxi ci ha tentato ma non abbiamo ceduto: gli ultimi 5 Km ce li siamo fatti e sono stati durissimi. In compenso sul pullman c’erano due signore sarde che hanno fatto il percorso con noi e incontrarle ci ha fornito l’occasione per confrontarci, per parlare.
La guida dice che “O’ Cebreiro non si vede ma si intuisce”. Non so trovare parole migliori per descrivere questo posto magico: è apparso all’improvviso quando non ci aspettavamo più di trovarlo. La sera ci ha avvolto in una fitta nebbia e la mattina ci ha fatto svegliare su una nuvola. Questo ci ha dato la forza di proseguire e da qui in avanti l’idea di prendere un pullman non l’abbiamo mai più presa in seria considerazione.

Da qui in poi il nostro viaggio ha mutato aspetto. Proprio nel posto col paesaggio più spettacolare che abbiamo incontrato abbiamo capito che il conforto che speravamo di ricevere dalla natura in realtà ce l’avrebbero dato gli incontri.

Il cammino si deve essere accorto che io e Francesco avevamo passato tre giorni di solitudine e quella sera ci mise in una bella camerata con 16 letti tutti occupati casualmente da italiani. Una confusione quella camera… finalmente sentimmo un po’ di “casa”.

Verso le 10 di sera in qull'albergue è arrivata una ragazza spagnola, distrutta, con le ginocchia gonfie, che non aveva nemmeno mangiato. Si è scatenata un’improvvisa colletta fatta di cerotti e biscotti per aiutarla. In lei ho visto me, la me che avrei potuto essere se non avessi ascoltato Francesco. Questa ragazza l’abbiamo sempre rincontrata i giorni successivi, ha seguito più o meno la nostra tabella di marcia ma… ha fatto ogni tappa in macchina, le ginocchia non si sono volute muovere per 10 giorni.

Accettare i propri limiti non è un limite, è un’opportunità. Grazie a quei soli 20 Km in pullman io ho potuto beneficiare di tutti i passi di quel viaggio e di tutti gli incontri che tra quei boschi ho fatto perché la vita non è fatta solo dei posti che vedi, ma (sopratutto) dalle persone che incontri.


(to be continued...)

2 Commenti:

Anonymous Anonimo ha detto...

e già...bisogna accettare i propri limiti.

Spesso tu, che sei di coccio, questo non lo capisci. ;-)

Ironman

2:10 PM

 
Anonymous Pinuccia ha detto...

il vero viaggio è quello dentro noi stessi. Ed è una continua scoperta, di punti di forza e limiti.

10:28 AM

 

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